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 2020  aprile 21 Martedì calendario

Le parole utilizzate nella pandemia

Le metafore belliche ai tempi del coronavirus sono ormai entrate nel linguaggio quotidiano, tanto da aver suscitato prese di posizione da parte di intellettuali e linguisti. Molti di loro condannano l’uso ricorrente nella comunicazione sociale e giornalistica di parole e verbi quali guerra, trincea, fronte, lotta, battaglia, prima linea, resistere, combattere e altri. C’è chi vi vede un segno – brutto - dei nostri tempi, interpretandolo come un’ulteriore occasione per alimentare chiusure e barriere o per deresponsabilizzarsi perché le guerre – così viene spiegata tale visione - vengono generalmente delegate a chi combatte.
Ma Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, è di parere diverso. Dalla sua posizione di vertice dell’istituzione fiorentina «custode» secolare della nostra lingua, difende il linguaggio «guerresco». «Come si può pensare alla mobilitazione della gente – dice – senza usare un linguaggio allarmante e allarmato? Forse è vero che le metafore belliche sono una miseria del nostro immaginario, come ha detto qualcuno, ma la rinuncia ad usarle non è forse frutto di un’utopia, seppure ispirata a un sentimento lodevole quanto aristocratico, un sentimento che rischia di essere moralmente ineccepibile quanto poco efficace sul piano pragmatico?».
Secondo il presidente della Crusca, insomma, nella narrazione del Covid-19 l’uso di parole forti – in altri contesti sicuramente condannabile - è servito e serve per far percepire il reale pericolo alla popolazione. «È evidente – afferma – che sarebbe stato tutto diverso se l’epidemia fosse stata chiamata raffreddore o influenza e così via per gli altri termini». Esiste anche una seconda faccia delle metafore belliche: per esempio c’è la parola «eroe». Sa un po’ di retorica, ma, per la Crusca, trasmette positività e non paura come le altre. In ogni caso, la discussione è aperta: una specie di questione del linguaggio politicamente e moralmente corretto in tempi di pandemia.
L’emergenza in corso, poi, sta mettendo in luce più che mai un aspetto su cui i linguisti italiani sono sensibili da tempo: l’anglismo imperante, cioè l’abuso di termini inglesi nella lingua italiana. Al riguardo, dal 2016, l’Accademia ha costituito al suo interno uno specifico gruppo, che si chiama «Incipit» e si impegna nel suggerire equivalenti italiani delle parole straniere che rischiano di entrare nella comunicazione pubblica. Una battaglia in difesa dell’italiano che, soprattutto in questo periodo, non sembra dare buoni risultati, a giudicare dalla dovizia di anglismi letti e ascoltati in ogni sede. «Lockdown», per esempio, è sulla bocca di tutti e viene usato per indicare l’isolamento e la chiusura forzata per l’emergenza sanitaria. In realtà – sostiene Marazzini che fa parte di «Incipit» – ci sono due parole equivalenti nella nostra lingua: «Confinamento» e «segregazione». Il significato in inglese di «lockdown», anzi in americano perché il termine non viene da Oxford, ha infatti origine dal linguaggio carcerario: vuol dire confinamento dei detenuti nelle loro celle durante una rivolta, misura che nel Nord America è in vigore dal 1983. Per estensione, poi, la parola ha assunto anche il significato di stato di isolamento o di restrizione per motivi di sicurezza. «Seppure i provvedimenti di "lockdown" siano stati presi molto tardi proprio dagli americani e dagli inglesi – prosegue – in Italia abbiamo sentito il bisogno di usare un’espressione loro, forse perché suonava meno spaventosa del più crudo "segregazione", o forse si è messo in atto il solito procedimento: attribuire a una parola straniera assolutamente ignota agli italiani un significato tecnico molto specifico, che magari non si è nemmeno stabilizzato nella lingua originaria, e poi far circolare questa parola al posto delle nostre, chiare e trasparenti».
Tra gli anglismi che stanno avendo fortuna ci sono altre parole: come «droplet», inteso come norma e criterio della distanza per evitare il contagio, e come «smart working» che indica il lavoro per via telematica. Alcune settimane fa i linguisti di Incipit avevano suggerito di ribattezzare quest’ultima espressione in «lavoro agile». E ce l’avevano quasi fatta. Marazzini ammette: «Con rammarico devo notare che "smart working" sta soppiantando l’espressione italiana, che pure si difende onorevolmente. Accordiamo fiducia limitata al motore di ricerca di Google, ma "smart working" totalizza quasi 8 milioni e mezzo di risultati, "lavoro agile" poco più di 800mila. L’anglismo stravince ai punti, era prevedibile».