Corriere della Sera, 20 aprile 2020
Ivan Juric, un misto di basket e di rock metal
Ivan Juric è stato un giocatore utile e quasi ignorato. Era leggero, non alto, molto ordinato, uno di quei registi di cui avverti l’importanza quando non ci sono. Quando giocano sono così lineari, assidui che vivono in silenzio dentro il panorama. Piacque però molto a Gasperini che lo trovò quando scese ad allenare il Crotone in serie B. Juric era l’uomo di mezzo intorno a cui correvano tutti i laterali di Gasperini. Quando l’anno dopo andò al Genoa,se lo portò con sé. Non nasce solo un’amicizia, nasce una delle più importanti accademie del calcio moderno. Gasperini crea, Juric arrotonda l’insegnamento con interpretazioni tra il naif e l’insistente. Con quella faccia da insegnante di greco antico, con gli occhi sereni ma tristi e una piccola sagoma perdente, ha dentro le tante anime della sua terra, Spalato, per quasi 400 anni veneziana, poi ungherese, austriaca, napoleonica, slava e finalmente se stessa. Il padre era un professore universitario che movimentava con i suoi articoli le discussioni politiche del nuovo paese. Lo fecero smettere. Il ragazzo cresceva giocando in tutte le Nazionali giovanili. Il primo amore fu il rock metallico, quello duro dei Napalm Death. Vennero in tournée a Zagabria nel ’94. Era un martedì. Ivan aveva 19 anni e un allenamento il mattino dopo, ma impazzì ai suoni oscuri, secchi, alle accelerazioni sconosciute dei Napalm. «Rimasi a pogare sotto il palco tutta la notte!». Pogare? Oh sì. Viene da to pogo, ballare tra spinte e salti, con dentro il bisogno di farsi sovrastare dalla musica. Juric ancora oggi detesta il pop, non gradisce la musica latina. Ma una volta quando allenava il Genoa, disse che per battere la Samp era disposto ad ascoltare Ramazzotti per un mese. Dopo Gasperini, l’altro uomo della vita è stato Phil Jackson, uno dei più grandi allenatori nella storia del basket americano. Inventò l’attacco a triangolo, cioè faceva girare continuamente i tre uomini offensivi, teneva i più alti in difesa e mandava al tiro soprattutto le guardie. In sintesi, non dava punti di riferimento e lasciava a tutta la squadra il compito di creare gioco offensivo. Secondo Juric, quel concetto applicato al calcio riequilibra la personalità dei giocatori e portava amicizia nello spogliatoio perché tende a eliminare i solisti, mette tutti sullo stesso piano. Il basket applicato al calcio come rincorsa di schemi era cominciato con Gigi Radice al Torino, quando Graziani (il pivot) era il primo che attaccava il difensore centrale quando ricominciava l’azione. Ma Juric ha fatto di più, ha preso uno schema del basket come modello psicologico. E lo ha portato nel profondo del suo calcio. Se osservate il Verona, troverete sette-otto giocatori che si muovono contemporaneamente scambiandosi la palla non da fermi. Non ha mai avuto grandi attaccanti Juric. A Verona il centravanti è Di Carmine, il suo compagno è il vecchio Pazzini, ancora utile ma che spesso parte dalla panchina. Eppure le squadre di Juric portano sempre in gol tanti giocatori. Nel Mantova, al suo esordio, 17. Nel Crotone, il suo capolavoro, promozione in serie A, 18. A Verona 13 in 26 partite. Perché i suoi giocatori occupano in tanti l’area degli altri e tirano con rapidità, accelerando. A volte si dice che questi colpi di mano, questo passare in un attimo dal ritmo blando allo scatto furioso sia un retaggio della musica metal, un linguaggio sempre spezzato, gutturale nelle voci e limpido nelle chitarre. Chissà, può darsi. Di sicuro quello è il suo timbro. Juric ha studiato molto Guardiola. È andato a Barcellona a guardarlo allenare. Ma Guardiola è un pontefice, Juric un alchimista, studia come trasformare gli individui in un insieme. Costruisce su tre-quattro elementi che per lui sono i leader. «Se sbagli questa scelta avrai molti problemi». Il suo calcio è cioè una forma di artigianato estremo, tutto particolari e scatti, l’umiltà che diventa forza, poi arroganza, via via che il campo passa. Senza mai far capire agli altri chi sei davvero.