La Stampa, 20 aprile 2020
1665, la peste a Londra
Quel formidabile giornalista di Daniel Defoe, tre anni dopo aver pubblicato Robinson Crusoe, diede alle stampe un libro intitolato Diario dell’anno della peste. Fingeva di essere l’editor (come Manzoni per i Promessi sposi) del diario di un certo H. F., londinese, di mestiere sellaio, sopravvissuto alla peste del 1665. Un flagello, come dice il sottotitolo. Ufficialmente ci furono 70.000 morti, ma H. F. sostiene che furono 100.000. Sarebbe come se oggi a Torino morissero per Covid-19 più di 200.000 persone.
Il libro di Defoe è, in fondo, un romanzo storico: ci sono pagine e pagine con i dati dei bollettini parrocchiali che registravano i decessi, ci sono i decreti emanati dalle autorità cittadine (non da quelle statali: il re e la corte erano fuggiti a Oxford), ci sono notizie tratte dai diari di due illustri letterati, Evelyn e Pepys, c’è insomma il dato storico recuperato dal giornalista Defoe. E poi c’è l’invenzione narrativa dovuta al romanziere Defoe, che a partire da quelle testimonianze creava l’effetto di un «vero» resoconto, di una cronaca «veritiera» di quella terribile pestilenza.
Le somiglianze con il presente sono, diciamo così, istruttive. Troviamo, innanzitutto, l’elogio dei medici, che «concorsero al salvataggio della vita di molti» londinesi, rischiando «a tal punto la vita da perderla al servizio dell’umanità». Alcuni medici, pochi, «abbandonarono i pazienti all’epidemia» fuggendo fuori Londra; ma quando tornarono in città vennero giustamente chiamati disertori.
Nel Diario troviamo, soprattutto, la descrizione delle successive fasi del contagio. All’inizio ci fu l’esodo di molti dalla City: esodo autorizzato, in quanto il sindaco diede un certificato di buona salute ai richiedenti che sembravano esserlo. Alcuni lo sembravano soltanto; e portarono il contagio fuori città. Poi si fece strada, volontariamente, l’abitudine a non uscire di casa la sera, ma questo non poteva certo bastare. Infine, con l’esplosione dei casi di peste, le autorità della City decretarono che i malati e i parenti dei malati restassero chiusi in casa. C’era un precedente. In occasione della peste del 1603 il Parlamento aveva deliberato, ricorda Defoe, «di chiudere la gente in casa». E così si fece nel 1665. Boris Johnson, non sapendolo, per una decina di giorni, in nome delle tradizioni inglesi, ha straparlato sulla libertà di circolazione e di raduno nei pub, nei ristoranti, nei cinema e nei teatri. Già ai tempi di Shakespeare, per evitare il contagio, i teatri li chiudevano, ragion per cui Shakespeare restò in casa a scrivere un poema intitolato Romeo e Giulietta (ma non lo finì prima che finisse la peste e quindi lo trasformò nella tragedia che tutti conosciamo). Ma Boris non lo sapeva.
La chiusura in casa dei malati e dei loro familiari era vista con angoscia. «All’inizio della moria» le autorità cittadine misero dei guardiani davanti alle porta delle case infette, ma spesso alcuni di loro venivano corrotti, altri malmenati: e così i parenti degli appestati potevano uscirsene di casa e scappare fuori città. Molti non sapevano di essere malati e trasmisero il morbo ovunque si rifugiarono. Poi, in poco tempo «ogni commercio, eccetto quello riguardante i mezzi di sussistenza, subì un arresto totale»; in ogni caso all’estero non volevano saperne di merci inglesi e le navi dirette a Livorno e Napoli, ad esempio, vennero mandate in Turchia.
Le pagine più angosciate non sono però quelle dedicate ai commerci, ma quelle dedicate alla condizione dei poveri; «non avevano infatti né cibo, né medicine, né medico, né farmacista che si occupasse di loro, né infermiera che li assistesse». E tuttavia un moto caritatevole ci fu: per aiutarli si raccolsero somme ingenti grazie alle offerte dei mercanti più timorati di Dio. Il morbo, però, non trovava ostacoli. Tucidide racconta che durante la peste del 430 a. C. i medici ateniesi erano disarmati di fronte a una malattia a loro sconosciuta. Quelli londinesi ne sapevano di più – e la raccomandazione, insieme a quella di restare in casa, era di lavarsi bene le mani. Ma non molto di più.
C’è però un punto del Diario che particolarmente colpisce. Quando, superato il picco, il numero dei morti discese fortemente, «la popolazione divenne così temeraria che considerò il morbo nulla più che una comune febbre». Molti cominciarono ad andare in giro dappertutto e il contagio di nuovo riprese con forza. Abbassare la guardia, insegnamento attuale, fu una cosa disastrosa. Se Dio vuole (e per Defoe è proprio la Divina Provvidenza che lo vuole), finalmente la peste sparì. Ma ancor prima erano spariti i santoni e i ciarlatani vari che offrivano rimedi inesistenti e ritenevano inutili le raccomandazioni dei medici. Auguriamoci che anche il Covid-19 abbia, almeno, questo effetto positivo.