Affari&Finanza, 20 aprile 2020
I rischi del circolo vizioso tra le banche e lo Stato
Dopo la crisi dell’euro la regolamentazione ha spinto le banche a ridurre il rischio degli attivi e aumentare la patrimonializzazione. Sono stati condotti stress test per verificarne la solidità in caso di shock estremi. E in previsione della incipiente crisi di liquidità di famiglie e imprese, sono stati ridotti alcuni requisiti di capitale, proibiti buyback e dividendi, e resi meno vincolanti i criteri contabili. Basta a scongiurare una nuova crisi bancaria nell’Eurozona?
Gli investitori sembrano dubbiosi: l’indice Euro Stoxx del settore vale oggi lo 0,33 del patrimonio netto contabile, meno dei precedenti minimi di 0,36 nel 2012 e di 0,35 nel 2009. Per ora le banche italiane non sono state penalizzate: dai massimi del 19 febbraio Unicredit e Intesa hanno perso in media il 49%, rispetto al 49,4% medio di Bbva e Santander, il 52,4% di Bnp e Credit Agricole o il 47% di Deutsche e Commerzbank.
Non si sa quando ripartirà l’attività economica; quale sia la portata dei danni (ma la caduta del 6,8% del Pil cinese nel primo trimestre fa temere crolli più severi di quelli stimati dal Fmi); e quali i tempi di recupero. Impossibile pertanto stimare l’effetto finale sui crediti deteriorati, la voce che maggiormente impatterà sulle banche. A sfavore delle banche italiane gioca l’esposizione della nostra economia al rischio virus: secondo l’Economist siamo tra i Paesi più esposti, assieme a Grecia e Spagna, sulla base di quota di Pil derivante da commercio, turismo e mobilità, posti di lavoro potenzialmente in smart working e dimensione dello stimolo fiscale.
La crisi colpisce tutte le voci del conto economico delle banche. Le restrizioni ai movimenti degli individui e alle attività sociali, e le incertezze sulle prospettive di reddito, riducono la domanda di credito al consumo e di mutui: la fonte più cospicua e meno rischiosa del margine di interesse. Mentre i governi spingono per estendere le erogazioni alle imprese, maggiormente a rischio e meno redditizie. Sui 547 miliardi di prestiti alle famiglie italiane, la Banca d’Italia indica infatti un Taeg medio di 6,53% per il credito consumo, 1,35% per i mutui e 3,77% per gli altri scopi; a fronte dello 0,71% e 1,81% (rispettivamente sopra e sotto il milione) per i 635 miliardi di prestiti alle imprese.
I finanziamenti agevolati della Bce non possono aiutare più di tanto visto che le banche italiane hanno già tirato il 35% di tutto il Longer Term Refinincing Operation. Il decreto liquidità copre con garanzie statali 300 miliardi di prestiti, che però non si estende a tante posizioni in essere, altrettanto a rischio, ed esclude quelle deteriorate (il cui valore si è ridotto).
La garanzia statale inoltre copre il 100% solo per le piccole partite, e comunque non evita lo stato di insolvenza del debitore con le conseguenze che ne derivano. Le commissioni infine si riducono essendo strettamente collegate all’andamento dei mercati. Alla lunga però potrebbe riemergere un rischio specifico alle nostre banche.
Il sistema bancario detiene 384 miliardi di titoli di Stato, ma l’intera esposizione verso la Pubblica amministrazione arriva a 650 considerando anche i prestiti. In caso di un 15% di insolvenze sui prestiti garantiti dallo Stato, non impensabile nella più severa recessione del dopoguerra (più le Gacs sulle senior notes delle sofferenze cartolarizzate, ma in portafoglio delle banche, nonché le garanzie all’ex Sga), si potrebbe anche arrivare a un’esposizione complessiva verso la PA che rasenta il 20% del totale delle attività, ovvero due volte il patrimonio netto complessivo del sistema bancario. Troppo.
Le banche finanziano lo Stato che a sua volta le garantisce contro le insolvenze dei privati. Un circolo vizioso che lega ancora di più le sorti delle banche italiane a quelle della finanza pubblica. Un legame che, invece, dopo la crisi del 2012 si voleva spezzare.