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 2020  aprile 20 Lunedì calendario

L’isolamento di Luca Parmitano

No, questa quarantena da coronavirus non assomiglia proprio all’isolamento di un astronauta. Luca Parmitano è tornato sulla Terra il 6 febbraio dopo sei mesi sulla Stazione spaziale. «Mi chiedono consigli su come si faccia a vivere a lungo in un ambiente ristretto. Ma è tutto così diverso. Per noi stare lassù è il culmine di un sogno», racconta l’astronauta dell’Agenzia spaziale europea (Esa), 43 anni, siciliano di Catania.

Anche lei chiuso in casa?
«Mi trovo a Houston, in telelavoro per la Nasa e l’Esa. Il Texas è diverso dall’Europa. Gli spazi sono ampi. Molte attività sono state costrette a fermarsi, ma è possibile uscire liberamente. Le abitazioni sono in genere grandi. Con un po’ di creatività, riesco a fare sport in casa, pesi o corpo libero».
Ma quando tornate dallo spazio non dovete mettervi in quarantena?
«Non si fa più dai tempi dell’Apollo. Alle prime missioni c’era il timore di riportare microbi dallo spazio, poi si è capito che era una paura infondata. In quarantena invece dovranno andare da oggi i miei colleghi appena tornati dalla Stazione. Jessica Meir e Andrew Morgan sono arrivati a Houston ieri notte. Siamo andati a salutarli, ma a debita distanza. Dovranno restare isolati per proteggere se stessi dal coronavirus. Dopo un lungo periodo nello spazio, in un ambiente quasi asettico, il sistema immunitario degli astronauti si indebolisce».
Anche non portare microbi dalla Terra alla Stazione è una grande preoccupazione per voi.
«Infatti alla quarantena ci sottoponiamo prima di partire. Almeno due settimane e mezzo di isolamento totale in un complesso residenziale a Baikonur, accanto al cosmodromo dove avviene il lancio, precedute da una settimana in cui ci chiedono di non incontrare nessuno oltre ai familiari. Ma neanche durante la quarantena stretta siamo soli. Ci sono i due equipaggi, quello principale e quello di emergenza, insieme agli istruttori e al personale di lancio. Annoiarsi è l’ultimo dei pericoli, con tante cose a cui pensare in vista della missione. E poi ci aspetta un regalo immenso, finalmente lo spazio».
A bordo l’igiene viene presa molto sul serio.
«L’ambiente della Stazione è talmente ristretto che gli astronauti finiscono per condividere qualunque microrganismo. Per questo dobbiamo essere sicuri di stare bene al momento del lancio e sterilizziamo tutto a bordo una volta alla settimana. Gli esperimenti scientifici su cellule tumorali o su batteri, che rischierebbero di contaminare l’ambiente, sono sigillati. Li manovriamo dall’esterno con dei guanti».
Quindi almeno un po’ si sente preparato per questa esperienza.
«Non so, mi sento un privilegiato perché sto bene, ho un lavoro e a casa posso recuperare il tanto tempo perduto nel rapporto con la mia famiglia. Non penso solo ai sei mesi di missione, ma anche agli anni di addestramento trascorsi lontano da loro. Le mie due figlie, una adolescente, l’altra preadolescente, cambiano quasi ogni giorno. Ho molto da fare per riscoprirle».
C’è paura per l’epidemia?
«Nello spazio siamo addestrati a reagire con distacco a eventuali situazioni di pericolo. È una tecnica mentale, uno strumento di autoprotezione che ci viene insegnato in fase di preparazione. A volte però rischia di farci sentire come in una bolla. L’epidemia qui sulla Terra per me è una sensazione più reale. Questo non vuol dire che io ne abbia una paura irrazionale, perché mi fido della scienza, dei suoi consigli e so che esistono delle soluzioni, anche se sono complicate».
La scienza però non a tutto può dare risposta, né la politica sembra sempre coerente e lungimirante.
«Nel mio piccolo, sono stato comandante a bordo della Stazione spaziale, dove ogni membro dell’equipaggio ha imparato esattamente cosa fare in ogni circostanza. L’unico cui non basta obbedire alle istruzioni, ma che potrebbe essere chiamato a prendere decisioni autonome, è il comandante. Mi rendo conto che ci sono situazioni in cui scegliere la cosa migliore da fare è molto difficile. In questo momento siamo su un campo di battaglia e abbiamo un compagno ferito che perde molto sangue. La prima cosa da fare è frenare l’emorragia perché non muoia. Ma poi dovremo pensare a come portarlo fuori da lì e curarlo in modo più organizzato. Non possiamo restare troppo a lungo sotto al fuoco nemico».
A parte la famiglia e il lavoro, c’è altro che le fa compagnia nelle sue giornate?
«La routine, cerco di alzarmi sempre con la luce del sole anche se non ho impegni, e di mantenermi attivo. Parlo con i miei familiari in Italia o con amici che magari non sentivo da tempo. C’è la scrittura, con articoli, la prefazione di un libro o anche solo i miei pensieri. Fin da piccolo, poi, ho l’abitudine di leggere molti libri insieme. In giro per la casa al momento ne ho due di Robert Frost e uno di Quasimodo. Della poesia mi piace la possibilità di aprire una pagina a caso, e la luce diversa che assume a seconda del momento. Sto leggendo anche un altro libro che mi ha consigliato mia moglie. Ripercorre la storia del Mago di Oz dal punto di vista della strega cattiva dell’ovest. Mi piace poter pensare che anche un personaggio così negativo possa essere osservato da un’angolazione nuova e diversa».