20 aprile 2020
L’auto tedesca ha bisogno dei fornitori italiani
Senza l’Italia, la Germania può solo ripartire a ranghi ridotti. Almeno, nel settore cruciale dell’auto. Non è un caso che Herbert Diess, capo di Volkswagen, ossia del più grande gruppo automobilistico del mondo, abbia fatto capire ad Angela Merkel di essere un sostenitore degli Eurobond. In una recente intervista aveva già dichiarato che occorresse “discuterne”. E in una telefonata con i vertici del governo Merkel di inizio aprile, Diess e gli altri boss della più potente industria tedesca, Oliver Zipse (Bmw) e Ola Källenius (Daimler) avrebbero chiesto di riaprire le concessionarie e discusso dettagli delle misure di sicurezza da adottare alla riapertura delle fabbriche. Soprattutto, i tre avrebbero insistito perché in Europa l’industria riparta in modo coordinato. E il motivo è chiaro. Finché l’Italia e la Spagna, i Paesi più flagellati dalla crisi, non riavvieranno le fabbriche, la Germania potrà solo procedere a un ritmo rallentato. E l’auto tedesca, che nel Paese di Angela Merkel impiega 880 mila persone, ha una grande fretta di uscire dal letargo.
L’esempio del colosso di Wolfsburg è lampante per lo stretto legame che lega Volkswagen e le altre big del settore all’Italia. I marchi più importanti avevano deciso di chiudere un mese fa, sempre citando Diess, perché era già percepibile «il netto crollo degli ordini e la prevedibile incertezza dal lato delle forniture». In altre parole, la chiusura amministrativa delle fabbriche in Italia aveva contribuito alla decisione del gruppo Vw, ma anche delle concorrenti Daimler e Bmw, di fermare i motori. Mentre la gran parte dell’industria tedesca, quella che poteva permettersi di andare avanti con le misure di sicurezza anti- coronavirus, ha tentato di non interrompere la produzione, quella dell’auto ha alzato bandiera bianca. E con essa, giganti dell’indotto come Bosch o Continental.
Sono ben 800 i fornitori dall’Italia che garantiscono al gruppo Volkswagen circa 19 mila pezzi per le sue controllate Vw, Porsche o Audi o Skoda e le altre. E «senza i fornitori», ha puntualizzato Diess nelle scorse settimane, «non possiamo costruire automobili. Perciò il tema è molto importante». Il marchio di Wolfsburg riaprirà questa settimana il suo stabilimento di Zwickau, poi man mano tutte le fabbriche tedesche entro i primi giorni di maggio, e via via anche quelle all’estero. Idem farà la sua controllata Audi, ma anche Daimler ha già annunciato il riavvio della produzione.
Abbiamo chiesto al più potente sindacato metalmeccanico europeo, Ig Metall, di fotografare la situazione in Germania e i rapporti con l’Italia. L’esperto del settore dell’auto, Kai Bliesener ci ha risposto ricordando che in Germania, al momento, «tutti i produttori e l’indotto usufruiscono dell’orario ridotto» e che quest’ultimo riguarda «circa il 60%» dei dipendenti. Un ulteriore 30% è in home office. Solo un 10% circa «lavora nelle poche fabbriche che sono potute rimanere aperte».
Bliesener conferma che siccome «ci sono rapporti stretti con l’Italia», l’interruzione delle forniture «si fa molto sentire». La stab ilità dell’indotto italiano, prosegue il sindacalista, «è un fattore determinante per consentire la piena produzione, soprattutto nel settore dell’auto». Perciò, per Ig Metall, «è fondamentale che ci sia un coordinamento internazionale» e soprattutto “europeo”. Perché «solo se ogni ruota dell’ingranaggio della produzione e della logistica iniziano di nuovo ad addentellarsi, si può ricominciare a costruire con successo». Lo stesso mantra del boss di VW Diess, quasi le stesse parole della presidente dell’Associazione dell’industria automobilistica, Hildegard Mueller: «Le catene dei fornitori sono complesse e internazionali. Produzione e logistica devono ripartire insieme». L’auto ha bisogno, ha sottolineato, «di frontiere aperte e un coordinamento europeo» per riaprire le fabbriche. In questo, aziende e operai, sindacati e padroni la pensano tutti allo stesso modo.
La mancata riapertura delle aziende italiane nasconde anche un pericolo. Ce lo spiega Giorgio Barba Navaretti, tra i maggiori esperti italiani di politiche industriali: «Esiste – fa notare l’economista dell’Università di Milano – un tema di strategia competitiva. Se un Paese rimane chiuso mentre gli altri riaprono, si rischia uno spostamento delle catene di valore». Anche se quelle dell’auto sono corte, «molto regionalizzate», e dunque molto europee, in virtù di una produzione impostata sul modello “on demand”, il rischio che l’indotto italiano venga sostituito, esiste.
Dall’incidente di Fukushima del 2011, Daimler ha istituito ad esempio un gruppo di lavoro che studia fornitori alternativi nel caso di grandi emergenze. È importante tenere presente questi aspetti, quando si parla di “Fase 2” e di ricostruzione post-Covid 19. Nell’industria, più che altrove, vale il principio che l’Europa è un continente senza barriere. Nella buona e nella cattiva sorte.