La Lettura, 19 aprile 2020
Sulla toponomastica italiana
Per i filosofi di Francoforte ogni nome era una risata trasformata in pietra. Alle speciali parole che corrispondono ai luoghi, ai nomi propri delle città, tocca il compito di designare il territorio, termine per natura ambiguo in cui è impossibile separare – proprio come in ogni città – quel che è fisico, la terra, da quel che è politico, il terrore. I nomi delle città tengono insieme l’una e l’altro, saldano quel che adesso chiamiamo paesaggio all’organizzazione delle collettività umane, al cui destino sopravvivono come fossili di un’epoca precedente. Si chiama storia, tale processo, e a guardarla sulle mappe appare come la successione di una serie di costellazioni e i nomi dei loro elementi non sempre hanno significato univoco.
L’armatura urbana dell’Italia prelatina si dispone secondo una partizione alquanto netta della sua articolazione culturale. Il Meridione è dominato dalla componente di origine greca, dalle colonie elleniche, che si chiamano come soltanto i marinai potevano chiamare un posto: o in riferimento alla traversata appena compiuta (Metaponto, cioè «di là dal mare»; Kyme cioè «onda») oppure alla presenza di acqua, la cui provvista costituisce la prima ragione per cui i naviganti sentono il bisogno di toccare terra. Akragas, Ela, Himera, Sybaris, Syracousai, Elea sono nomi di fiumi e sorgenti che diventano nomi di città, sono corsi d’acqua che si mutano in formazioni urbane.
Quello delle colonie greche è insomma un territorio la cui logica esprime lo sguardo di chi risale dal mare e che battezza Lipara le isole a settentrione della Sicilia orientale perché appunto appaiono «grasse», cioè fertili e ricche. Uno sguardo che non separa mai la città dal suo contesto, per cui essa è molto più sinonimo di relazione con l’ambiente che di puntuale delimitazione: perciò Selinunte si chiama così in virtù delle ampie distese di prezzemolo selvatico (sélinon) che la circondano e, all’estremità settentrionale, Ankon, che significa gomito, prende il nome dal brusco angolo che in corrispondenza del Conero interrompe l’andamento rettilineo della costa adriatica.
Espressioni di un’organizzazione territoriale meno episodica e frammentaria, e più compatta e coerente, le altre fondazioni – a partire da quelle etrusche che occupano il settore centrale della penisola – risentono direttamente della struttura gentilizia di cui sono il frutto (Mutina, Curtun). Soltanto Wern e Atrium, a settentrione, riprendono nel nome quello di un corso d’acqua, evidentemente a comprovare la diffusione molto maggiore e quindi meno decisiva, rispetto al Meridione, della risorsa idrica, e a prova dell’origine non marinara delle culture di cui le città sono il portato. Nemmeno Manta si chiama così dai grandi specchi lacustri che la circondano, bensì da un dio signore dei morti: toponimo in cui l’acqua, semmai, svolge un ruolo simbolico più che concreto. E più a sud Pretut, che i Romani chiameranno Interamnia, significa proprio l’opposto: deriva dal brano di terra circondato da rivi.
Per il resto prevalgono nomi che denotano, rispetto a quello greco, uno sguardo molto più articolato nei confronti del dato topografico, soprattutto per quel che si riferisce alle forme del rilievo e delle piane: Brik vuol dire colle; in Sena Gallia, limite meridionale dell’insediamento gallico lungo l’Adriatico, si riflette la presenza di una «vecchia radura»; Medelhan vuol dire proprio «in mezzo alla pianura».
È lo sguardo di chi arriva non dal mare ma dal continente valicando le Alpi e, come il marinaio greco, cerca ciò di cui ha più bisogno, il ripristino di condizioni analoghe a quelle di partenza. Il che vale anche nel caso dell’etrusca Aritim che vuol dire «posto in declivio», marca cioè l’esistenza di un centro di pendio. E ciò da qualsiasi parte, per terra o per mare, gli Etruschi provenissero.
Tutt’altro regime investe l’Italia latina e medievale. I toponimi ancora evidenziano specifiche condizioni locali, sono l’esito di minuti rapporti topografici: Ariminum prende nome dal fiume Marecchia che allora si chiamava Ariminus, Luca dall’esistenza di un bosco sacro, Tridentum dai tre colli che circondano l’insediamento, Cuneum dalla confluenza tra la Stura e il Gesso. Ma alcuni nomi svolgono, per la prima volta, una funzione di estesa sineddoche: sono la parte per il tutto, manifestano cioè già l’esistenza di formazioni territoriali irriducibili per formato alla singola città che pure contrassegnano. È il caso di Venetia, termine che si riferisce all’insieme delle regioni che oggi chiamiamo Veneto e Friuli, o di Bononia, il nome dato dai Romani all’etrusca Felzna: Bononia indicava non soltanto l’attuale capoluogo regionale ma un inedito esperimento territoriale, quello di una strada questa volta, la via Emilia, che diventa un’unica città da Ariminum a Placentia. Un esperimento molto ben riuscito, come appunto il nome del suo centro principale ancora oggi testimonia: Bologna la buona, nella sua nastriforme, estesa totalità.
Altrove invece, come nel caso di Roma, il motivo topografico si fonde con quello mitologico in una sola, globale versione: i colli su cui è edificata coincidono con le mammelle della lupa che allatta Romolo e Remo. Una città è infatti proprio questo: il luogo dove le cose materiali (urbs) diventano immateriali (civitas) e viceversa, trasformandosi di continuo l’una nell’altra. Fino al punto da cambiare il nome della città stessa, come insegna meglio di tutti l’esempio di Agylla, che inizia a diventare l’etrusca Caere cioè Cerveteri, racconta Strabone, quando la sentinella tessala risponde chairen, cioè «benvenuto», allo straniero che chiede come si chiami il luogo dove è giunto. Appunto: la risata che diventa pietra.