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 2020  aprile 19 Domenica calendario

Il diario della pandemia di Francesco Piccolo

Stamattina sono uscito per andare a fare la spesa. Presto, per due motivi: il primo è che trovo poca fila quando il supermercato apre; e poi perché posso fare una passeggiata intorno all’isolato del supermercato. Ogni tanto devo farlo, perché sento che i muscoli mi fanno male, di notte mi sveglio più del solito, come se avessi bisogno di scalciare e dare pugni nell’aria.
Ho dei vestiti vicino all’ingresso, che uso solo per queste brevi uscite. Indosso mascherina, guanti e vado. Il mio gioco è quello di evitare qualsiasi essere umano intraveda nei paraggi, tenendomi distante almeno trenta metri. Quindi attraverso la strada, lo rifaccio, cambio strada, torno indietro. A quest’ora – alle sette e mezza – è facile, non c’è quasi nessuno; l’unico momento difficile è quando giri un angolo, perché non sai mai chi puoi trovare.
Poi, tornando a casa, proprio sotto casa, ho visto un signore che attraversava la strada. Era un arabo e aveva la faccia particolarmente cattiva (secondo me) e quindi mi è venuto in mente una parola: terrorismo. Lo so che è un pensiero orribile, ma i diari servono anche a questo, a scrivere pensieri orribili perché tanto non li vede nessuno – anche se qui so che sto facendo un diario in pubblico e quindi devo gestirlo con più accortezza; ma un diario è anche una rivelazione delle proprie meschinità. E quindi va bene così. Ecco, io non so se aveva davvero la faccia cattiva o se sembrava un terrorista (non credo, oltretutto, che i terroristi vogliano sembrarlo); insomma, era solo un arabo. Però mi sono ricordato che qualche tempo fa avrei pensato: ma non è che è un terrorista? Ma non per lui, è che eravamo spaventatissimi e il mondo sembrava cambiato in modo irreversibile: i soldati con i mitra alle uscite della metropolitana, i camion a chiudere le strade, e noi che pensavamo di esplodere in aria nel centro di Roma.
E adesso, è tutto svanito.
E quell’arabo (con la faccia nemmeno così cattiva, poi) non mi ha fatto pensare a un terrorista, ma mi ha fatto ricordare che mi sono dimenticato del terrorismo. Questo incontro, questo pensiero mi ha risollevato perché ho pensato che anche la paura di questo virus se ne andrà, come se ne è andata la presenza irreversibile del terrorismo. Anche questo farà parte del passato, anche questo tra qualche tempo, quando vedremo qualcuno che tossirà, non ci farà paura, ma ci farà ricordare di quando avevamo paura.

Dico questo perché sono fermamente convinto che tutto questo finirà e che torneremo a vivere come prima. Penso queste cose per difendermi, per non affrontarle? Forse, ma ne sono davvero convinto. Leggo tutti i giornali, mi informo su tutto, tutti dicono che nulla sarà come prima e io ottusamente e in maniera ostinata dico che tutto tornerà come prima. Ne sono straconvinto: torneremo a vivere e ricominceremo proprio dal punto che avevamo lasciato; e questa convinzione è quella che mi fa alzare ogni mattina e mi fa sedere alla scrivania a lavorare alle cose a cui stavo lavorando prima, a leggere romanzi che non parlano del virus, a ripensare ai giri in motorino per la città, allo zaino riempito ogni mattina per andare allo studio, ai bar, ai cappuccini, a quel ristorante, a quel vino. Credo fermamente al ritorno alla normalità, ed è questo che mi dà la pazienza di aspettare. E anche di sopportare la tragedia dei morti ogni giorno, di cui, in quella vita normale che tornerà, ci renderemo conto seriamente e ci sembrerà molto più mostruosa di ora. Ma quando ne capiremo davvero la portata, staremo o ci sentiremo più al sicuro.

Poi torno a casa, apro piano la porta, metto a posto la spesa, mi spoglio completamente, mi faccio la doccia, pulisco il telefono con l’alcol. E poi aspetto che si sveglino mia moglie e mio figlio, faccio il caffè e preparo la colazione per tutti. Qui si ferma il mio eroismo nella quotidianità. Sono stato tentato molto in questi giorni, dopo aver letto tutte le cose che fa Sandro Veronesi, di scrivere che anche io lavo, stiro, cucino, faccio il bucato, carico la lavastoviglie – perché ho pensato che sarebbe stato bello comunicare ai lettori della «Lettura» questa capacità, pensando che i lettori della «Lettura» non sapranno mai se lo faccio veramente; ma poi ho pensato che non era giusto, che Veronesi lo dice perché lo fa davvero e io lo avrei detto solo per fare bella figura e per non essere da meno; e quindi lascio perdere. Però posso dire che in questo mese ho cucinato due volte il risotto; e quando l’ho fatto dalle sette di sera nessuno poteva rivolgermi più la parola, gli amici mi mandavano messaggi e mi telefonavano inutilmente e pensavano chissà che fine ha fatto.
Faccio il risotto con lo stesso impegno di Einstein quando si concentrava per scrivere la formula che doveva sintetizzare la sua teoria; e se poi non mi dicono almeno dodici volte che è la cosa più buona che hanno mangiato nella loro vita, sanno che non lo farò mai più. In realtà, non so se è il risotto più buono mai cucinato, ma è buono; ed è buono perché l’impegno e la concentrazione che ci metto sono sproporzionati. Con la stessa concentrazione, gli architetti di talento cambiano lo skyline di una metropoli. Eppure, se si riesce a metterci una concentrazione sproporzionata, il risotto viene buono. Questo è un insegnamento.
10 aprile

Siamo tutti, anche io, nel mondo del «secondo me». Da quando è apparso il virus, non sento altro che amici, parenti, sconosciuti, che dicono: secondo me. E fanno la loro previsione. E anche io. Dico: secondo me ricomincerà tutto come prima. Quando sento qualcuno, ci salutiamo, e poi so che sta per dire: secondo me. E i secondo me cambiano, si contraddicono, si intestardiscono. E anche le domande: secondo te – e poi ti chiedono cose che nemmeno i virologi sanno.

Sono ossessionato dalla normalità, poiché ho questo pensiero fisso che tornerà tutto come prima. Secondo me. Leggo i giornali da cima a fondo per tenere il mondo sotto controllo. Mi sta a cuore tutto, dal Festival di Spoleto al gran premio di motociclismo nello Yemen, anche se del motociclismo non me ne frega niente; però tutto è un segno di depressione o di speranza. Se dicono: la manifestazione è stata rimandata al 7 giugno, io poi ci starò attento, a mano a mano che si avvicinerà il 7 giugno ci farò caso se quella data rimarrà o verrà tolta. Questo vale soprattutto per il campionato di calcio: mi sembra il segnale più definitivo della normalità in questo Paese; perché se tornano a giocare un giorno io so che sta succedendo qualcosa di buono – ed è il motivo per cui leggo i giornali da cima a fondo, per tenere tutto sotto controllo e per ora quello che tengo sotto controllo è l’eliminazione, l’annullamento o il rinvio delle cose. Finora è stato così. Ma pian piano cambierà, sta già un po’ cambiando, anche se molto piano. Io comunque mi sono appuntato mentalmente tutte le date in cui sono state rinviate le cose, seguo ossessivamente le evoluzioni e aspetto il ripristino di alcuni eventi. Quando hanno annullato il Salone dell’auto di Parigi, che si doveva tenere a ottobre, mi sono depresso. Volevo scrivere a qualcuno per chiedere, ma in realtà ho paura di saperlo. In realtà tengo sotto controllo ma poi non so se e cosa voglio sapere. In realtà, io voglio sapere solo che si sta risolvendo tutto. Voglio chiedere: secondo te, si sta risolvendo tutto? E voglio sentire: sì.
Quello che ho imparato, è che stiamo pagando un prezzo molto alto per tutto questo. Un prezzo nel presente, e quindi nel futuro. Ma ci sarà una rinascita, e sarà davvero come quella del dopoguerra: con l’euforia e la capacità di ricostruire. A questo credo fermamente. Ostinatamente. Ottusamente.

Tra l’altro, ci siamo aggirati intorno al televisore per tutto il giorno, perché annunciavano di continuo un discorso di Conte. Sapevamo già cosa avrebbe detto, ma sentirlo dire in diretta e a reti praticamente unificate, ha un altro senso. Conte ha parlato alle sette e mezza di sera. Ha detto che il lockdown continua fino al 3 maggio, che riaprono le librerie; e poi ha usato l’occasione di un messaggio di informazione per tutti gli italiani per fare un attacco politico ai partiti dell’opposizione. Che avesse ragione o no, nei fatti, non ha nessuna importanza rispetto all’uso inappropriato che ha fatto del suo ruolo e dell’occasione. Imperdonabile. Ma la cosa più incredibile è questa: non ce ne importa niente. Questa cosa, rispetto a tutto quello che stiamo vivendo, è minuscola. Eppure dal punto di vista politico è (sarebbe) gigantesca. A noi interessa che il bollettino racconti la diminuzione dei morti quotidiani, quando usciremo, come sarà questa fase 2, e anche in quali modi ripartirà il ciclo economico. Quindi, appena Conte ha finito di parlare, diciamo e ascoltiamo una quantità incalcolabile di: secondo me.

11 aprile

So che dentro di me, ho paura. Ma la ignoro. Così come cerco di ignorare il dolore. Lavorare è davvero l’unica soluzione che ho per combattere tutto questo. Per rimuovere, certo. Ma non è un buon momento per rimuovere? Secondo me sì. Anzi, secondo me in tutta la vita vissuta finora non c’è mai stata un’occasione più giusta per rimuovere. E con il Covid, si può mettere insieme un altro po’ di rimozioni, se non tutte, quasi tutte.
Tra le cose che rimuovo è che ho una figlia che sta a Bologna (perché studia lì) e che prima stava a Santiago (perché studiava lì) proprio mentre succedevano quei casini in Cile; dovrei pensare che è lontana, che ho paura, che mi manca. E invece: rimuovo. Rimuovo che ho una figlia; rimuovo che ho degli amici con i polmoni fragili, delle persone anziane a cui voglio bene. Rimuovo l’apocalisse che è l’altra strada del bivio, quella che io non ho imboccato, perché ho imboccato quella della certezza del ritorno alla normalità. Rimuovo tutto per non fare come Woody Allen in Hannah e le sue sorelle, quando scopre che non è vero che ha un cancro terribile; ma nel momento in cui si salva entra in una crisi esistenziale gigantesca perché si è appena reso conto con chiarezza, ha appena toccato con mano, che moriremo e che quindi nulla ha senso; e infatti non vuole nemmeno più andare a lavorare, e la sua collega gli dice: ma lo sapevamo già che moriremo; e lui dice: sì ma questa cosa la tenevo sotto, compressa, facevo un sacco di cose per non pensarci, ma adesso è venuta fuori. In queste settimane è esattamente quello che è venuto fuori – per i più fortunati, e cioè quelli che hanno ancora e solo paura.
Ecco, io voglio tenerla compressa, questa paura, sotto un sacco di cose. Ancora. Il regista con cui sto lavorando in videochiamata mi dice: ma guarda che poi queste cose, se le tieni sotto, poi quando esplodono, non le fermi più. Ma io lo so, e però ho anche uno stratagemma: se io rimuovo e ignoro, ignoro e rimuovo, potrei riuscire a morire prima dell’esplosione, e quando sarò morto e l’esplosione non ci sarà stata, avrò vinto. A quel punto, avrò fatto bene a rimuovere. Per questo lavoro, scrivo, progetto, faccio riunioni, studio, prendo appunti. Perché è un anestetico contro mia figlia che se n’è andata via, contro i miei genitori che sono morti, contro i dolori che subisco e che provoco, contro i risotti che non vengono bene, contro tutte le volte che perdo qualcuno o qualcosa, contro i bollettini delle 18. Contro il coronavirus e quello che sta provocando. Contro il senso di tutto questo e contro quelli che dicono che tutto questo ha senso. L’idea che abbia un senso non l’accetto. La ignoro. La rimuovo.

13 aprile

Pasqua l’ho ignorata e rimossa. E così faccio oggi con Pasquetta, qualsiasi cosa significhi. Ho cercato di convincere per tutta la settimana i miei conviventi a fottercene e ad aprire l’uovo prima; ma loro dicevano cose tipo la tradizione. E allora ho rimosso tutto – tranne l’uovo, che ho cominciato a mangiare sabato notte, dopo mezzanotte (a quel punto era Pasqua, la tradizione era rispettata).

Qualche sera fa io e mio figlio guardavamo il canale della Nba. C’erano dei video dei giocatori di basket che si allenavano a casa in qualche modo. In uno, c’era Trae Young, uno dei campioni di questi anni, che faceva una gara da 3 in solitario: aveva messo un cestino davanti al muro e messo calzini appallottolati in varie posizioni. E tirava calzini nel cestino. Abbiamo detto: facciamolo anche noi. Abbiamo preso il cestino che c’è sotto la scrivania della camera di mia figlia, messo quattro paia di calzini in tre posizioni diverse più un altro paio lontano (è un tiro jolly che vale 3 punti). Tiriamo, li raccogliamo, li riposizioniamo e ricominciamo. Questo gioco è piaciuto molto anche a mia moglie, che ha voluto partecipare. Così, ogni giorno ogni tanto diciamo «gara?» e usciamo dalle nostre stanze e facciamo questa gara noi tre.
Io ho giocato a basket molti anni, mio figlio anche gioca a basket da qualche anno, mia moglie non sa nemmeno il basket cosa sia. Io tiro meglio di tutti, perché i miei calzini in aria volteggiano all’incontrario come il pallone di basket quando si tira frustando il polso. Ma non segno quasi mai. Mio figlio segna poco. Mia moglie vince tutte le gare. Finora, non ha mai perso una volta. Adesso in pratica giochiamo per batterla, e fino a oggi 13 aprile, lunedì di Pasquetta, abbiamo sempre perso.
Questo è importante, soprattutto riguarda Trae Young. Se questa gara la vince sempre una che non ha mai tirato una volta un pallone da basket, vuol dire che è un allenamento sbagliato. Vorrei tanto trovare i gradi di separazione giusti per avvertire Trae Young. E comunque, quando ricomincerà il campionato Nba, temo che le prestazioni di Young peggioreranno.

La mia vita in questi giorni è tutta così: modi di passare la giornata dentro casa, il tentativo ostinato di allontanare (rimuovere) i pensieri bui, l’attesa dei numeri che non peggiorano e migliorano poco alla volta (e speravo proprio che quando toccava fare a me questo diario, potessi dire cose più ottimistiche), le telefonate quotidiane, tutti i secondo me, la lista aggiornata di continuo dei film e delle serie che devo vedere approfittando di questi giorni, alcune sere affacciato alla finestra a sentire questo silenzio della città che non avevo mai sentito in tutta la mia vita, e la concentrazione per rimuovere tutto, concentrazione pari a quella che metto per fare i risotti.

14 aprile

Oggi sono ricominciate le lezioni virtuali di mio figlio, che gestisce Zoom con grande sapienza, ormai. Io chiudo tutte le porte, perché mi imbarazza sentirlo parlare e rispondere alle domande, è come se fossi presente alla lezione a scuola.
Però oggi, per colpa di queste cazzo di lezioni virtuali, il mio capolavoro degli ultimi mesi è stato mandato in frantumi. Mio figlio è in prima media e all’inizio dell’anno la mamma di una sua compagna di classe ha chiesto il mio numero per la chat di classe. Non avrei mai detto no, anche se avrei voluto dire no. Lei è anche una mia lettrice, e avevo paura che se dicevo no poi non avrebbe più comprato i miei libri. Poi mia moglie ha detto: voglio esserci anche io nella chat di classe e quindi ho aggiunto il suo numero. E poi con un ritiro lento studiato e invisibile, sono riuscito pian piano, con una specie di miracolo talentuoso, a far dimenticare a mia moglie che nella chat c’ero anche io. Sono completamente sparito, ma non ho abbandonato (gesto orribile); semplicemente non esistevo più.
E infatti lei ogni tanto mi inoltrava le comunicazioni, io dicevo: bisogna chiedere la password per Zoom. Questo significava che doveva farlo lei perché era nella chat, ma non affermavo esplicitamente di non esserci. Però mia moglie va due giorni alla settimana al lavoro, e stamattina mio figlio non riusciva a entrare nella chat, mia moglie non rispondeva al telefono, lui si disperava e ho dovuto mollare e mandare un messaggio nel gruppo. E così mia moglie quando è tornata a casa ha detto: ma scusa, quindi c’eri anche tu nella chat? E io ho detto un sì, è ovvio, perché?, come se non mi fossi eclissato per mesi; e poi ho parlato subito di cose terribili per non farla andare avanti nell’indagine. È andata bene, lei ha creduto che fosse un problema suo quello di non essersene accorta. Però adesso la verità è rivelata, e io devo ricominciare da capo la mia fuga lenta e silenziosa, fino a farglielo dimenticare di nuovo.

Oggi in alcune regioni le librerie (e le cartolerie, e i negozi di abbigliamento per bambini) non riaprono. A Roma è stato deciso che riapriranno il 20 aprile (lo controllerò). Su un giornale, oggi, ho letto che prima della fine di maggio apriranno i ristoranti e i bar (lo controllerò). Al momento, io continuo a dire secondo me, ma in realtà non ci ho capito niente. Credo sia conseguenza del fatto che se non ci hanno capito molto tutti gli altri, la sintesi di informazioni che ricevo dà per forza come risultato che non ci ho capito niente. Dentro la mia testa, così, convivono in modo sparso e democratico la consapevolezza della vita difficile di molti, le centinaia di morti quotidiane, il desiderio di andare in motorino per la città, la preoccupazione per i muscoli se non cammino. Convivono i pensieri più egoisti e superficiali, e la comprensione dell’umanità, di cui dal mese di marzo sono orgoglioso di far parte, così come sono sinceramente orgoglioso di vivere in questo Paese (dal mese di marzo).
Una mia amica mi ha appena mandato il seguente messaggio: secondo te, lo trovano il vaccino? Avrei dovuto rispondere: non ne ho la più pallida idea; e invece le ho risposto sì.
Una cosa però forse – forse – l’ho capita: perché mia moglie continua a vincere le gare da 3 con i calzini (al momento, non l’abbiamo ancora battuta).
Secondo me, io e mio figlio immaginiamo di essere su un campo da basket, di avere un pallone da basket e di tirarlo in un vero canestro; e forse sentiamo anche – come sentono solo i maschi scemi – gli spalti pieni di tifosi che ci incitano. Mia moglie, invece, pensa soltanto che bisogna buttare questi calzini in quel cestino; e basta.