La Lettura, 19 aprile 2020
Intervista allo storico Peter Frankopan
Non a caso l’anno scorso «Pro-spect», la più acuta rivista politico-culturale britannica, aveva inserito lo storico Peter Frankopan nella lista dei cinquanta più influenti pensatori globali. E infatti poco prima di Natale l’accademico di Oxford ha pubblicato, sempre su «Prospect», un articolo in cui metteva in guardia dai rischi di una pandemia: mai riflessione si è rivelata più profetica. Perciò «la Lettura» lo ha interpellato sulla crisi in corso.
Professore, l’emergenza coronavirus è anche una sorta di sottoprodotto della globalizzazione: ma segna pure la sua crisi, nel momento in cui la globalizzazione appariva già in ritirata. Stiamo assistendo al colpo fatale? E dalla crisi emergerà un nuovo ordine?
«Il termine globalizzazione ha assunto un significato molto negativo non solo a causa della pandemia ma già nell’ultimo paio d’anni. Adesso associamo la globalizzazione al trasferimento del lavoro dalle economie sviluppate a quelle in transizione; e siamo arrivati a parlare della globalizzazione in termini di rimozione di prerogative e controlli e di erosione dell’indipendenza e perfino della sovranità degli Stati. Non è sorprendente, perciò, trovare così tanti commentatori che ora parlano della fine della globalizzazione e dell’emergere di un nuovo ordine».
Non è così?
«Personalmente trovo che tali opinioni non solo manchino di prospettiva ma falliscano nel comprendere la questione in modo adeguato. È vero che alcune occupazioni in alcuni settori sono state trasferite geograficamente. Nel caso dell’Italia, sicuramente, questo significa che la produzione e l’occupazione nei settori dell’alta tecnologia e in alcune aree della manifattura si sono spostate verso la Cina e il Sudest asiatico. Dall’altro lato, i consumatori italiani ne hanno tratto grandi benefici, con un considerevole aumento del potere d’acquisto grazie ai prezzi più bassi. Se da un lato la globalizzazione può essere accusata di molte cose, dall’altro lato i livelli di occupazione in quasi tutte le economie sviluppate, inclusa l’Italia, erano alti prima della pandemia, il che suggerisce che le economie sono flessibili, reattive e resilienti: le opportunità hanno continuato a essere create nel corso di molti decenni di cambiamenti».
Ma sappiamo che esiste anche un lato oscuro della globalizzazione, come tutti stiamo vedendo in questi giorni.
«È certamente corretto che quanto più interagiamo gli uni con gli altri, tanto più abbiamo la capacità di commerciare, apprendere, innovare. E, come ho scritto spesso in passato, queste interazioni producono anche conseguenze negative: per esempio la diffusione della violenza, di tecnologie che sono difficili da controllare e ovviamente anche di malattie. Il risultato della realtà odierna è che queste interazioni vengono ridotte al minimo, a causa dell’isolamento, ma anche perché la nostra capacità di trarre benefici dagli scambi si è ridotta. Credo che la ripresa in Cina e nel Sudest asiatico sarà più veloce e più intensa che in Europa: e questo potrebbe essere un fattore decisivo nel dare forma al mondo nel quale ci troveremo a vivere nel breve e medio termine».
Come si può paragonare l’attuale pandemia alla Peste Nera del Trecento e all’influenza Spagnola di un secolo fa?
«La Morte Nera devastò l’Europa, il Medio Oriente e probabilmente ebbe un forte impatto anche sull’Africa sub-sahariana. In Europa, forse il 30% della popolazione morì. Ma la peste fu troppo letale per la sua stessa riuscita: uccideva troppo rapidamente, il che vuol dire che una volta che villaggi e città vennero isolati, la malattia perse impeto. Non era rimasto letteralmente nessuno da uccidere. È assai diverso dall’attuale coronavirus: sembra che molti risultino positivi al morbo senza soffrire sintomi o effetti, il periodo di incubazione è relativamente lungo e il virus impiega un periodo di tempo abbastanza lungo per “uccidere o essere ucciso”. In effetti, il suo successo e la sua minaccia consistono nel fatto che si colloca al giusto livello di pericolosità per riuscire a diffondersi con efficacia. Pure la Spagnola fu diversa per la sua natura e per le circostanze in cui prese piede. Molte parti del mondo si trovavano in guerra: come risultato il consumo di calorie era basso; ma anche altri fattori svolsero un ruolo nell’alto tasso di mortalità, come i bassi standard igienici e gli alti livelli di inquinamento. Soprattutto, nuove ricerche suggeriscono che molte vittime vennero uccise non dall’influenza ma da infezioni batteriche secondarie. Dunque adesso siamo alle prese con qualcosa di molto diverso, anche quando veniamo all’impatto: è difficile valutare quale sarà, perché non è ancora chiaro ciò a cui stiamo assistendo. Non è impossibile che non ci siano quasi più viaggi internazionali prima del 2021; o che scoperte mediche e una migliore comprensione della malattia ci riportino alla normalità in poche settimane o mesi. Chiaramente più a lungo va avanti, più significative saranno le conseguenze».
La diffusione del virus sta anche cambiando le nostre abitudini e ha introdotto il cosiddetto «distanziamento sociale»: quali saranno le conseguenze di lungo termine sulla nostra idea del vivere assieme?
«Come ha scritto Aristotele, l’uomo è un animale sociale. Gli esseri umani godono della compagnia reciproca: non è una coincidenza che una vita di isolamento, non solo nel cristianesimo ma anche in altre fedi, sia un segno di grande rispetto, perché è l’antitesi dell’essere umano. Dunque per noi vivere separati non è né facile né naturale. Anche se comunichiamo tramite videochiamate, non è lo stesso che essere assieme di persona. E ovviamente, le videochiamate le facciamo con persone che già conosciamo e che (di solito) ci piacciono. Dunque ci troviamo privati degli incontri casuali sull’autobus, non passiamo accanto per strada a individui che portano abiti differenti, non incontriamo persone nuove o stringiamo amicizie. Tutto ciò è una grande sfida alla salute mentale: e sappiamo che la condizione psichica è legata a più ampi problemi di salute. Se questa situazione prosegue per poche settimane, non è troppo grave. Ma chiaramente un isolamento di lungo termine può avere risultati drammatici: i crimini violenti sono in calo in Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti, ma la violenza domestica sta crescendo rapidamente».
Abbiamo assistito nelle scorse settimane a fenomeni di panico collettivo, come la corsa a fare scorte di cibo in Gran Bretagna o, in America, perfino all’acquisto di armi. Quali sono le radici di queste paure?
«L’apocalisse ventura è una parte centrale di molti sistemi religiosi. La paura dell’instabilità, della violenza e dell’imminente fine del mondo sono temi che ci toccano nel profondo e ci fanno sentire come se il cosmo fosse fuori controllo. Alcune persone reagiscono cercando di creare ordine e, in questo senso, fare scorte (perfino di armi da fuoco) appare come una risposta razionale per quelli che la praticano. Come storico, considero che queste paure e risposte non siano nulla di nuovo: è così che le società spesso reagiscono. So anche che le pandemie e le crisi mostrano come gli esseri umani possano apparire irrazionali e paurosi: ma che siamo anche molto resilienti e compassionevoli. Queste ultime settimane hanno mostrato non che vogliamo ucciderci gli uni con gli altri ma che siamo inclini a sostenerci e incoraggiarci reciprocamente. Dunque, al posto della paura, vedo solo speranza».
La diffusione del virus sta facilitando la disseminazione di fake news, ma conduce anche a una rivalutazione del ruolo degli esperti. Assisteremo all’emergere di un diverso approccio alla conoscenza?
«Penso che gli esperti siano ben apprezzati. A Oxford, vivo e lavoro in una comunità che include molti premi Nobel, così come esperti mondiali nelle loro discipline. In base alla mia esperienza, quelli che hanno dedicato la loro vita all’insegnamento e alla ricerca sono rispettati dal 99% della popolazione: non ho nulla di cui lamentarmi. Il problema delle fake news consiste nelle piattaforme web che sono state create e che consentono alle cattive idee di propagarsi. Quelle piattaforme sono pericolose: gli interessi dei loro manager e investitori non sono allineati con quelli del pubblico né con quelli dello Stato. Questo mi preoccupa molto di più».
Sulla rivista «Prospect» lei aveva messo in guardia dai rischi dovuti alla mancanza di una risposta globale alle pandemie. Anche adesso le varie nazioni non sembrano seguire un approccio coordinato. Quali saranno le conseguenze? E come avrebbero dovuto reagire i governi?
«A livello nazionale nessuno era preparato per la pandemia. Nessuno aveva abbastanza letti d’ospedale, ventilatori, equipaggiamenti di protezione. Nessuno aveva pensato a come utilizzare i big data o l’intelligenza artificiale per combattere un’epidemia, nessuno aveva un piano per chiudere città, regioni, economie. Tutto ciò riflette una scarsa pianificazione, soprattutto se si considera che molti sapevano che la domanda sulla pandemia non era se, ma quando. La cosa peggiore è che Paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, che erano indietro nella diffusione del contagio rispetto all’Italia, non hanno prestato attenzione a colmare queste lacune mentre erano ancora in tempo. In altre parole, non solo non stavano imparando dalle lezioni della storia ma neppure da quelle del presente. Tutte le questioni esistenziali realmente importanti attualmente richiedono la cooperazione internazionale: dalle migrazioni alle pandemie, dalle crisi finanziarie al cambiamento climatico. Ma assistiamo a ripetute richieste di allentare i legami, di separarsi gli uni dagli altri: e in tutte le democrazie i populisti incoraggeranno gli elettori a fare scelte drastiche, senza essere onesti sulle conseguenze. Questo non promette bene sul lungo termine: il momento peggiore per separarsi dal gruppo è quando fa buio e i predatori sono a caccia. In queste circostanze, molto meglio restare assieme».