La Lettura, 19 aprile 2020
Otto miliardi di umani, il Bengodi dei virus
Ian Tattersall è uno dei massimi esperti al mondo di evoluzione umana. Vive a Manhattan e lavora all’American Museum of Natural History. Gli chiediamo che cosa sta succedendo a New York in questi giorni di esplosione della pandemia. «Sono tempi – risponde lo scienziato – bizzarri e terribili. La mia vita è schiacciata nelle quattro mura dell’appartamento, con una visione ristretta sulla fascinosa stradina del West Village che mi dice che là fuori gli spacciatori di crack bazzicano ancora, anche se meno frequentemente. Esco una volta alla settimana per fare provviste, attraversando strade pressoché deserte. E nulla di tutto ciò mi prepara alle spaventose statistiche sulla mortalità quotidiana a New York che sento alla radio. Per me, quei numeri sono un’astrazione. Qui non ci sono corpi per le strade e finora nessuno è morto nel mio isolato. Eppure quelle cifre parlano di una realtà tragica, con la quale dobbiamo sforzarci di fare i conti».
Morti per le strade no, ma fosse comuni sulla Hart Island nel Bronx sì. Come state vivendo la vostra quarantena?
«Mia moglie e io stiamo abbastanza comodi. La parte difficile è conciliare la nostra esperienza immediata con ciò che sappiamo sta accadendo intorno a noi. Occasionalmente, capita qualcosa che getta una luce agghiacciante sul mondo esterno. Ad esempio, prima che New Orleans venisse chiusa, la figlia di mia moglie e suo marito, cittadini del Nord-Est che non avevano nemmeno mai immaginato di possedere una pistola, sono arrivati alla conclusione (suscitando l’orrore mio e di sua madre) che ne avevano bisogno. Ma quando hanno cercato, tutte le armerie di New Orleans (e ce ne sono parecchie, mi creda) erano esaurite. A quanto pare, le vendite all’ingrosso di munizioni hanno superato il tetto massimo a livello nazionale. Che cosa stanno immaginando gli americani?»
Difficile centrare il virus con una Smith & Wesson. Abbiamo letto del tasso drammatico di disoccupazione già raggiunto negli Stati Uniti in poche settimane. Secondo lei la pandemia è una livella egualitaria o aggrava le diseguaglianze?
«Questa è una crisi occupazionale imposta da un virus, non da una caratteristica del ciclo economico. Il Congresso ha optato per la liberalizzazione delle indennità di disoccupazione, inducendo i datori di lavoro a licenziare i dipendenti, senza garanzie di reimpiego dopo la crisi. I licenziati hanno inondato di domande gli uffici statali, generando un’ansia diffusa. Sono stati incoraggiati a trovare occupazioni alternative nel settore dei servizi essenziali, temporaneamente fiorente. Il virus di per sé può infettare a caso, ma si sta abbattendo di più su coloro che non hanno modo di mantenere le distanze di sicurezza, che sono costretti dalle circostanze a vivere stipati insieme e a fare lavori pericolosi».
Le scelte incoerenti e tardive sull’emergenza di leader come Donald Trump e Boris Johnson non sembrano avere scatenato forti reazioni negative nella popolazione, nonostante la perdita di vite umane.
«Anche i “leader” più grossolanamente incapaci ottengono sempre una spinta nei sondaggi in tempi di crisi, perché noi esseri umani vogliamo disperatamente credere che i nostri destini siano in mani sicure. Viene facile metterci una benda sugli occhi quando siamo davanti a fatti scomodi. Pensi a un incompetente senza speranza come George W. Bush dopo l’11 settembre. Il desiderio della psiche umana di evitare di contemplare il peggio prevale sulla capacità di valutare realisticamente una situazione difficile. Nonostante le nostre formidabili abilità razionali, siamo notoriamente creature imperfette: preferiamo vivere il più a lungo possibile nei mondi che creiamo nelle nostre teste, almeno fino a quando, di solito troppo tardi, interviene il mondo reale».
Lei ha scritto un libro intitolato «I signori del pianeta», eppure un piccolissimo virus a Rna adesso sta mettendo in luce tutta la nostra vulnerabilità.
«Quel titolo non era mio! E ne sono stato imbarazzato fin da quando è uscito. Volevo intitolarlo Un enigmatico arrivo, in parte in omaggio al grande scrittore V. S. Naipaul, autore del romanzo L’enigma dell’arrivo, in parte per riflettere sul modo del tutto improbabile con cui abbiamo acquisito lo stile umano di pensiero. Il messaggio è che noi non siamo condannati dalla selezione naturale a essere una creatura di un certo tipo: abbiamo davvero il libero arbitrio. Questo è ciò che rende l’esperienza umana così meravigliosamente unica ed è in definitiva ciò che ci ha reso la specie dominante sul pianeta. Ma, ahimè, non garantisce che prenderemo buone decisioni».
Mi pare che il lato ecologico di questa pandemia non sia al centro dell’attenzione. I flagelli non vengono dal nulla ma dalla distruzione ambientale, dai commerci illegali di animali esotici e così via. Qualcuno però sostiene che non dovremmo sentirci in colpa per il progresso. Stiamo preparando alibi affinché tutto torni come prima?
«La morale di questa vicenda è che noi umani impariamo raramente dalla storia. Guardi a come abbiamo disimparato presto la lezione della crisi finanziaria del 2008. Il problema è che siamo culturalmente guidati, quindi riluttanti ad abbandonare i modi in cui abbiamo imparato a credere o a comportarci. Gli scienziati ci avevano avvertito da tempo del problema dei salti di specie dei virus e dei mercati con animali vivi, ma i politici sono molto restii a inimicarsi la gente vietando pratiche tenaci, per quanto autodistruttive. Nella mente umana, il calcolo a breve termine supera sempre il vantaggio a lungo termine».
Eppure questa è una vecchia storia: il 20 per cento del nostro Dna è di origine virale, segno di moltitudini di infezioni passate a cui siamo sopravvissuti. Qual è stato il ruolo degli agenti patogeni nell’evoluzione umana?
«Noi abbiamo sempre dovuto convivere con i patogeni. Ma nell’ultimo secolo o giù di lì, i successi della ricerca avevano alzato le nostre aspettative circa il grado di protezione che la scienza poteva garantirci da simili disastri. Il problema specifico al momento attuale è la densità senza precedenti in cui viviamo. Con quasi otto miliardi di abitanti sul pianeta, per lo più stipati guancia a guancia in città superaffollate, per non dire di quando voliamo da una città all’altra chiusi dentro tubi con le ali, offriamo ai patogeni un serbatoio mondiale incomparabile in cui prosperare. E questo è un fatto di cui dovremo essere ben consapevoli quando qualcosa di ancora peggiore di Covid-19 ci colpirà. Ci sono infatti molti altri virus che potrebbero fare il salto di specie».
Che cosa pensa delle ipotesi secondo cui un virus o un batterio, portato da noi quando siamo usciti dall’Africa, potrebbe avere contribuito all’estinzione delle altre specie umane vissute fino a tempi recenti come i Neanderthal?
«Penso che noi siamo particolarmente affezionati a spiegazioni chiare che ci assolvano dalla responsabilità di eventi spaventosi. I Neanderthal erano una specie resistente, già sopravvissuta a molte vicissitudini climatiche. L’unica vera minaccia per loro eravamo noi. Nel giro di dieci millenni scomparvero ed è difficile pensare che non vi sia stata alcuna connessione tra l’invasione di noi umani moderni e la loro estinzione. Esistono finora poche prove archeologiche che attestino l’effettiva interazione tra i Neanderthal e i primi Homo sapiens entrati in Europa. Ci affascina pensare che sia stato un virus o un batterio portato dagli invasori tropicali a sterminare i Neanderthal al posto nostro. Ma certo, il nobile Homo sapiens non può essere stato così rozzo da farlo direttamente con le sue mani? E invece, anche senza contare gli agenti patogeni, considerando soprattutto come gli invasori umani hanno sempre trattato nella storia i popoli che incontravano sulla loro strada, è davvero improbabile che non ci sia stata una qualche forma di conflitto diretto tra le due specie».
Persino i virologi sono stati spiazzati da questo coronavirus geneticamente nuovo. Quanto è imprevedibile l’evoluzione e perché?
«L’evoluzione, compresa quella umana, è sempre stata imprevedibile. La ragione è chiara: l’evoluzione è necessariamente vincolata a ciò che esiste già, cioè al prodotto delle contingenze del passato, e gli eventuali cambiamenti futuri saranno determinati da alterazioni del tutto casuali del genoma. E poi c’è il fenomeno dell’emergenza: “balzi” evolutivi imprevedibili possono derivare da convergenze del tutto accidentali tra nuove acquisizioni e ciò che esisteva già».
Il suo libro più recente, scritto con Rob DeSalle, è «The Accidental Homo sapiens». Siamo davvero così accidentali? E che cosa dobbiamo aspettarci dall’evoluzione umana dopo il coronavirus?
«Un altro titolo scelto dall’editore, ma forse più pertinente sul punto centrale del testo, e cioè che non esiste una “condizione umana” specificata biologicamente. Mentre i nostri geni certamente condizionano ciò che siamo e quello che facciamo, rimaniamo in ultima istanza responsabili delle nostre scelte. Siamo “accidentali” nella misura in cui questa facoltà di scelta è una qualità emergente, non imposta dalla natura. Essa ci dà responsabilità del tutto inedite, che la nostra specie non si è ancora dimostrata pienamente in grado di gestire. Quanto alla domanda se l’evoluzione potrà mai intervenire per salvarci dalle nostre follie, ne dubito, perché le innovazioni genomiche possono avere successo solo in piccole popolazioni. E invece noi viviamo oggi in una gigantesca popolazione mondiale che è troppo densa e troppo mobile per ammettere il tipo di innovazione richiesta per migliorare la specie. A meno che, con un costo umano terribile, la nostra enorme popolazione non sia nuovamente frammentata in modo significativo in gruppi più piccoli, come tante isole, a causa di un qualche evento persino peggiore della comparsa di Covid-19».