La Lettura, 19 aprile 2020
Paolo Giordano intervista Jared Diamond
In Armi, acciaio e malattie Jared Diamond ha offerto per primo al mondo una narrazione originale delle epidemie: quando sono nate, perché, come si sono diffuse. Negli anni successivi ha indagato come le società scelgono di morire (Collasso) e come possono invece rinascere (Crisi), sfruttando come specchio del nostro vivere i meccanismi delle culture più arcaiche (Il mondo fino a ieri) così come il volo degli uccelli (Da te solo a tutto il mondo). Pandemie, civiltà che si suicidano o si salvano, diseguaglianze, il nostro rapporto irrisolto con l’ambiente: le tematiche affrontate da Diamond nel corso di una vita trovano una sintesi improvvisa nell’esperienza che l’umanità sta attraversando. Per questo, fin dai primi giorni del coronavirus, ho pensato spesso a lui.
Sono ormai due mesi che tramite le inquadrature di Skype entriamo nelle case altrui, due mesi che sbirciamo stanze private. Il soggiorno alle spalle di Diamond, nella sua casa di Los Angeles, è soffuso di calma e luce. In California sono le 10 del mattino e lui mi dice: «Mia moglie e io siamo isolati come voi. Non vediamo gli amici e questa è la parte più triste. Ma posso ancora uscire a fare birdwatching ogni giorno, suonare il pianoforte, scrivere articoli sugli uccelli della Nuova Guinea e passare del tempo con mia moglie. Insomma, potrebbe andare peggio».
Quando ha realizzato che questa pandemia sarebbe stata diversa?
«Prima della maggior parte delle persone. Per via di 55 anni trascorsi in Nuova Guinea a studiare gli uccelli. In Nuova Guinea le cose vanno sempre male: gli aerei si schiantano, le navi si rovesciano, le automobili non arrivano mai, i nativi si ammutinano, l’esercito irrompe con le armi. Là pensi costantemente a che cosa può andare storto, quindi io ho imparato a farlo anche nel resto della mia vita. Quando tutto questo è iniziato, a gennaio, mi sono messo a riflettere se poteva andare male. E sì, è andata parecchio male».
È quella che nel Mondo fino a ieri chiama «paranoia costruttiva». Ci torneremo. Per il momento vorrei domandarle della metafora della guerra, a cui tutti stanno ricorrendo come se ci mancassero altre parole più adeguate.
«Credo che la guerra sia una metafora azzeccata, ma non per le ragioni a cui la gente pensa. È azzeccata per il modo in cui la guerra ci mobilita verso la cooperazione. I Paesi hanno le loro identità nazionali e queste identità sono spesso rafforzate dalla presenza di un nemico comune. I popoli guardano indietro, alle battaglie contro quei nemici, a distanza di decenni. Per esempio, gli inglesi pensano ancora al Blitz del 1940 (i raid aerei della Luftwaffe sulle città britanniche, ndr), si dicono che nulla può essere peggio del Blitz e dei nazisti, perciò se hanno prevalso su di loro possono risolvere qualunque problema. Oppure la Finlandia: nel 1939, durante la guerra d’inverno, i finlandesi resistettero all’Unione Sovietica. Io viaggio regolarmente in Finlandia fin dal 1959 e i finlandesi non hanno mai smesso di dire: se siamo sopravvissuti alla guerra d’inverno, possiamo sopravvivere a tutto. Ora, ciò di cui abbiamo bisogno contro il coronavirus è uno sforzo mondiale. La crisi non può essere risolta dai Paesi separatamente. Se anche l’Italia e la Spagna e il Regno Unito e gli Stati Uniti risolvessero il “loro” problema con il virus, ma il virus continuasse a esistere in Grecia o nello Zambia, il mondo intero s’infetterebbe da capo. Finora il mondo non ha avuto un’identità simile a quella degli inglesi e dei finlandesi. Questo virus potrebbe costruirla, perché è una lotta globale contro un nemico comune».
Non è esattamente quel che è successo finora, però. Gli Stati hanno agito ognuno per conto proprio, ognuno con la stessa incredulità, perfino all’interno dell’Europa. Per non parlare dell’Italia, in cui nemmeno le regioni trovano una linea condivisa. Non potrebbe accadere l’esatto contrario? Che i nazionalismi escano dalla crisi rafforzati?
«Sì, potrebbe. Gli stress suscitano sempre il meglio e insieme il peggio delle persone. Ho letto e riletto i libri di Primo Levi e lì si vede come i campi di concentramento suscitassero il meglio e il peggio degli esseri umani. Mia moglie e io pensiamo molto ai campi, perché sua madre fu imprigionata ad Auschwitz. Sopravvisse perché un gruppo di prigioniere collaborarono per salvarsi a vicenda, condividendo il poco cibo che avevano. Ma per sopravvivere dovevi anche rubare: al padre di mia moglie tentarono di prendere le scarpe in un campo di concentramento in Siberia. Anche questo virus suscita il meglio e il peggio dell’umanità. Lo vedete voi in Italia e lo stiamo vedendo qui negli Stati Uniti. Se muoiono abbastanza persone, forse ci convinceremo che siamo davvero tutti sulla stessa barca, che senza cooperare rischiamo di annegare uno per uno».
Come si costruisce questo futuro di cooperazione?
«Io non vedo la cooperazione nel futuro, ne vedo già l’inizio. Mia moglie ha appena ricevuto un pacco con centinaia e centinaia di mascherine dalla Cina. La Cina sta aiutando gli Stati Uniti e sta aiutando l’Italia. E poi c’è l’esempio della cooperazione fra gli scienziati. Ogni giorno escono nuovi articoli sul virus, gli autori sono cinesi, italiani, americani, ma stanno lavorando tutti insieme. Quando mi chiedono se sono ottimista o pessimista, io rispondo sempre che sono un ottimista cauto, che le probabilità sono 49% di fallire e 51% che ce la faremo».
Allora diciamo che io sono un pessimista cauto. In Armi, acciaio e malattie racconta come i conquistadores spagnoli prevalsero in America Latina proprio grazie ai virus. Rischiamo di avere dei nuovi conquistadores del coronavirus? Forse proprio la Cina? O Amazon e Netflix? O qualcun altro che non ci aspettiamo affatto?
«La conquista delle Americhe è un buon esempio per parlare dell’oggi. Cristoforo Colombo sbarcò portando con sé il vaiolo, il morbillo, la tubercolosi e parecchie altre malattie. Il bilancio più alto di vittime della storia non è stato quello della Peste nera in Europa. Né quello del colera in Bengala. È stato quello causato dall’arrivo degli europei in America. I nativi non erano mai stati esposti a quelle malattie, non avevano immunità genetica né acquisita, mentre gli europei avevano resistenze di entrambi i tipi, perché quei patogeni circolavano in Eurasia da molto tempo. Hernán Cortés sferrò il suo primo attacco contro l’impero azteco e fu respinto verso la costa. Sarebbe stata la fine della conquista spagnola, se non fosse arrivata da Cuba una nave con a bordo uno schiavo con il vaiolo. Quell’unico schiavo infettò l’impero azteco. Dopo pochi mesi la metà di loro era morta, compreso l’imperatore Cuitláhuac. Cortés lanciò il suo secondo attacco e vinse. Poi il vaiolo si diffuse dal Centramerica verso sud, decimando anche gli inca e uccidendo allo stesso modo il loro imperatore, Huayna Cápac. Vede, cowboy e indiani sono un grande tema della cultura statunitense. Ci piace pensare che la conquista sia avvenuta sui campi di battaglia. In realtà, il 95% dei nativi è morto a causa delle malattie europee, solo il 5% combattendo. Ma c’è una differenza sostanziale rispetto a oggi: allora esistevano persone esposte e altre non esposte, mentre questo coronavirus è nuovo per l’intera specie umana. Nessuno lo affronta con più resistenza di altri».
Armi, acciaio e malattie iniziava domandandosi da dove nascano le diseguaglianze. È vero, siamo tutti ugualmente esposti al coronavirus, ma stiamo già vedendo come le diseguaglianze abbiano un peso anche stavolta.
«Il Los Angeles Times e il New York Times di oggi segnalano che gli afroamericani hanno un tasso di letalità più alto per Covid. La resistenza genetica non c’entra nulla ovviamente. Il virus uccide di più le persone con altre patologie e gli afroamericani, dal momento che sono più poveri, ne hanno di più. Questo non significa, tuttavia, che i ricchi americani ed europei possano dire: ah, questa malattia ucciderà solo i poveri migranti africani, per noi non ci saranno problemi! Non è così. Abbiamo esempi di persone potenti che sono state infettate e hanno rischiato. Boris Johnson è appena uscito dall’ospedale. Questa è una malattia di tutti. Si può fare dell’umorismo nero (in italiano, ndr): quand’è che i ricchi e i potenti della Terra prenderanno sul serio i problemi del mondo? Quando anche loro moriranno per i problemi del mondo».
Ciò che sappiamo per certo è che le persone anziane sono molto più a rischio di complicanze gravi. Nel Mondo fino a ieri ha testimoniato i modi molto diversi in cui le società tradizionali trattano i loro vecchi: dalle Figi, dove i figli masticano amorevolmente il cibo prima di darlo ai genitori, ai sirionó boliviani, che quando si spostano lasciano indietro gli anziani a morire da soli. Nelle case di riposo italiane si sono svolti i capitoli finora più macabri di questa epidemia. Il virus ci sta svelando qualcosa di nuovo sul nostro rapporto con la vecchiaia?
«Il modo in cui la nostra società si rapporta con gli anziani m’interessa moltissimo, perché mi riguarda da vicino: ho 82 anni e sono a buon diritto nella categoria più a rischio. In questo momento negli Usa c’è molto dibattito sul triage. Il numero dei respiratori è limitato e presto ci saranno più persone in carenza d’ossigeno che respiratori disponibili. Dovremo dare la precedenza ai giovani o agli anziani? La risposta comune è: ai giovani, perché hanno davanti una vita più lunga. Be’, io ho un punto di vista diverso, basato sul mio interesse personale. I giovani hanno più vita davanti, è vero, ma hanno anche meno valore, perché hanno accumulato meno esperienza. D’altra parte, mia moglie e io abbiamo due gemelli, che compiranno 33 anni questa settimana. Se dicessi: lasciate quei respiratori per me, Jared Diamond, li starei togliendo a loro. Tutto questo per mostrare che si tratta di un compromesso davvero difficile».
Qualcuno lo definisce un compromesso inaudito. Come inaudito è ciò che sta succedendo con i funerali, i sopravvissuti che non possono assistere alla sepoltura dei loro cari. Eppure le sepolture, c’insegnano a scuola, vengono considerate l’inizio stesso della civiltà.
«Rido, perché i funerali in Nuova Guinea erano molto diversi dai nostri. Negli altopiani i defunti non venivano sepolti: venivano mangiati dai loro parenti. A me non è mai stata data l’opportunità di farlo e non so come mi sarei comportato. Ma il genero di uno dei miei collaboratori, 15 anni fa, morì e ogni membro della famiglia dovette mangiarne una parte. Al mio collaboratore toccò un braccio. Ecco, in questa epidemia non sarebbe una pratica raccomandabile, perché mangiando l’arto di un defunto infetto rischieresti di prendere il virus».
Forse è la nostra civiltà che si sta divorando da sola. In Collasso descriveva l’autosabotaggio di alcune società, come la deforestazione dell’isola di Pasqua che portò all’estinzione dei suoi stessi abitanti. Stiamo assistendo a comportamenti del genere anche adesso?
«Oh, qui abbiamo moltissimi esempi di comportamenti suicidi, soprattutto da parte del nostro amato presidente! Gli Stati Uniti avevano una commissione per gestire le pandemie, composta da persone con molta esperienza. Due anni fa è stata abolita. Perché? Per risparmiare denaro. Ecco un esempio di comportamento suicida. Tra i nostri 50 Stati, alcuni sono liberali e governati da persone con un ottimo livello d’istruzione, altri sono più conservatori e gestiti da persone ignoranti. La California, dove vivo, ha un governatore particolarmente audace, Gavin Newsom. Lui e il sindaco di Los Angeles, Eric Garcetti, hanno imposto il lockdown molto prima che se ne parlasse a livello federale. Ma altri Stati hanno assunto condotte diverse. Il governatore del Mississippi ha detto che non c’era alcuna ragione per ordinare il lockdown e ha incoraggiato la gente a riunirsi nelle chiese. Anche i governatori della Florida e del Texas erano contrari al lockdown».
A volte mi chiedo se reazioni del genere siano dovute solo all’ignoranza o anche alla scarsa volontà di capire, all’incapacità di dire ai cittadini ciò che i cittadini non vogliono sentire: per esempio che bisogna rallentare l’economia per un po’.
«Ci sono ragioni multiple per cui le persone diventano autolesioniste. Una è sicuramente l’ignoranza: le persone che non hanno un’istruzione solida, soprattutto scientifica, che magari disprezzano il sapere, non hanno una visione lucida del virus. Un’altra ragione è il conflitto d’interessi. Per esempio, sappiamo che il cambiamento climatico è dovuto in larga parte ai combustibili fossili. La resistenza alla loro diminuzione, una ventina d’anni fa, veniva soprattutto dalle grandi compagnie petrolifere. La terza ragione sono le ideologie, che impediscono una percezione nitida della realtà. Infine c’è la paralisi dovuta alla paura».
Qualche giorno fa Trump ha condiviso un tweet contro Anthony Fauci, uno degli immunologi più stimati al mondo e consigliere per la crisi fino a qui. C’era scritto: «Time to #FireFauci», tempo di cacciarlo.
«Questo è un aspetto degli Stati Uniti molto difficile da capire per gli europei. Gli Stati Uniti guidano il resto del mondo nella scienza e nella tecnologia. Abbiamo più premi Nobel di tutte le altre nazioni messe insieme. Ingenuamente si potrebbe pensare che gli Stati Uniti siano il Paese occidentale più ricettivo rispetto alla scienza. Ebbene, non lo sono. Al contrario, sono il Paese occidentale più ostile. E la resistenza non riguarda solo la scienza, si tratta di una vera forma di anti-intellettualismo. Nel 1961 vivevo in Germania e andai a un raduno politico. Il candidato della Cdu aveva un dottorato e si presentò come “dottore in eccetera”. Nessun candidato farebbe una cosa del genere qui. Al contrario, i politici cambiano i loro nomi di battesimo in versioni più confidenziali: William Clinton diventa Bill. Sull’origine di questo anti-intellettualismo diventato routine possiamo solo fare delle ipotesi. Una è legata alla nascita stessa degli Stati Uniti, che vennero fondati da emigrati europei in cerca di libertà religiosa. Qui non c’erano le grandi Chiese come in Europa, bensì una miriade di piccole comunità scismatiche. Nei secoli successivi abbiamo avuto più movimenti religiosi fondamentalisti di qualsiasi altro Paese al mondo: i mormoni, gli avventisti del settimo giorno, i testimoni di Geova... Il risultato è questo anti-intellettualismo, spesso associato a un primitivismo religioso».
Possiamo imputare almeno una parte del nuovo primitivismo al mezzo digitale?
«Ricordo le prime elezioni presidenziali alle quali m’interessai. Era il 1948, avevo 11 anni. Harry Truman, subentrato a Roosevelt che era morto nel 1945, correva per la conferma, ma ci si aspettava che avrebbe perso. Per la campagna fece un whistle-stop tour: viaggiò su un treno attraverso gli Stati Uniti, fermandosi in ogni paesino. Parlava per due minuti, poi ripartiva verso la tappa successiva. Decine e decine di fermate e discorsi. Oggi un candidato non ha bisogno di fare tutti quei chilometri, gli bastano un telefono, Twitter, la televisione. Sì, è anche attraverso il cambiamento della comunicazione che è cambiata la politica».
I chilometri, Jared Diamond non se li è mai risparmiati. Ha viaggiato per tutta la vita. Ora i viaggi saranno perturbati, il nostro senso dell’altrove forse cambierà per sempre. Come la fa sentire?
«Da cinque anni insegno alla Luiss di Roma. Proprio oggi dovrei essere di ritorno dall’Italia. Invece sono qui. Avevo una trasferta in Gran Bretagna prevista per maggio: cancellata. Le vacanze nel Big Sur, sempre a maggio: cancellate. Il viaggio annuale con mia moglie in Montana: cancellato. Per fortuna i miei figli sono abbastanza grandi da avere alle spalle una storia di viaggi. Li abbiamo portati dappertutto, a eccezione dell’Antartide. Ma la mia nipotina di due anni non s’è mai mossa. Per lei mi preoccupo. C’è la possibilità che l’epidemia muoia da sola, come la Sars. Oppure il Covid resterà e diventerà simile all’influenza, tornerà ogni anno e a un certo punto avremo i vaccini. L’influenza non c’impedisce di viaggiare, sebbene uccida migliaia di americani ogni inverno. Quindi la mia scommessa è che tra un anno gli spostamenti saranno tornati normali, con o senza Covid».
Si è interessato molto al cambiamento climatico, soprattutto in Collasso. Sappiamo che esiste un legame fra le epidemie e il nostro rapporto con l’ambiente, ma sappiamo anche che questo non vuol dire necessariamente che ci muoveremo nella direzione giusta da qui in avanti. Ho il timore, anzi, che la crisi del coronavirus possa vanificare gli ultimi anni di sforzi sul clima.
«Anche qui vedo due ipotesi opposte: la pandemia ci apre gli occhi su quel che sta avvenendo tra la specie umana e il resto del pianeta, incoraggiando un’azione più rapida ed efficace, oppure la pandemia assorbe tutte le preoccupazioni in sé stessa e il climate change torna in fondo alla lista delle nostre priorità. Come ho detto, sono un ottimista cauto, perciò penso che, una volta inaugurata questa nuova cooperazione su scala mondiale, capiremo che il virus non è l’unico problema del pianeta, ma solo il più evidente. Allora avremo alle spalle una storia che ci permetterà di affrontare adeguatamente anche il climate change. Potrebbe essere il beneficio più grande portato dal Covid, al costo di milioni di vite».
Mi chiedo se sia possibile trarre qualche insegnamento utile oggi dall’osservazione delle società tradizionali.
«C’è così tanto che possiamo imparare dalle società tradizionali! Per il presente, credo che la lezione più importante sia la paranoia costruttiva. Nella mia vita mi sono rotto solamente un osso, scivolando su una strada ghiacciata a Boston. Chiamai mio padre, che era un medico, mi portò all’ospedale e venni ingessato. Ma se ti procuri una frattura in mezzo alla giungla nessun ortopedico viene a soccorrerti. Non funziona il telefono e devi camminare tre giorni solo per uscire dalla foresta. Quindi in Nuova Guinea esiste questo principio della paranoia costruttiva. I miei amici americani e italiani pensano che io sia esageratamente prudente, ma non è così: sono appropriatamente prudente. Ora, per via del Covid-19, resto in casa, non incontro nessuno. Ho delle persone che vorrebbero vedermi, ma io applico la mia paranoia costruttiva e dico di no».
La lettura riesce ad essere una distrazione in un momento come questo?
«Per lavoro leggo saggi. Ma per piacere leggo in italiano. Ho riletto La tregua di Primo Levi per la quarta volta. Se non ora, quando? per la quinta. E Se questo è un uomo per la sesta. Ora sto rileggendo Le due città di Mario Soldati».
Perché?
«Perché amo la vostra lingua. E perché Levi e Soldati sono scrittori riflessivi. A ogni rilettura ne scopro aspetti nuovi, passaggi su cui interrogarmi. Ho appena superato la scena delle Due città in cui Emilio si allontana da Veve. Perché lo fa? È vero, appartengono a due classi sociali diverse, ma perché lo fa? Anche il suo è un comportamento suicida».