Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 19 Domenica calendario

Intervista a Monica Bellucci

Monica Bellucci è a tre dimensioni, ha messo piede nel teatro. Conversiamo, noi da Roma, lei dalla costa atlantica della Francia. La distanza è la riprova della sua natura vagante.

Cresciuta in Umbria, ha vissuto all’estero, in più città, con residenza a Parigi. Parla tre lingue. È stata testimonial di vari marchi mondiali. Ha avuto registi di cinema cosmopoliti. È un’icona narrante per uomini e donne di più continenti, restando un archetipo mediterraneo.
Benvenuta nello spettacolo dal vivo, signora Bellucci, dopo aver battezzato in due sale parigine "Maria Callas: lettere e memorie". A cosa attribuisce il suo destino nomade?
«Non so se farlo risalire a mio nonno nato a Chicago, a una radice familiare di gente che s’adatta, o alle opportunità che m’ha offerto il cinema. Decisiva è una certa mia natura personale che ha agganciato le circostanze».
Lei è reduce da un debutto in palcoscenico, nei panni della più grande diva della lirica del 900.
Una performance a tu per tu col pubblico dopo tre decenni di set. Un passo compiuto a 55 anni. Dopo due maternità, a 40 e a 45 anni. Vantando il pregio della lentezza.
«Lo so che non era inclusa nelle
Lezioni americane di Calvino, però la lentezza è una parte congenita della biologia femminile. L’opposto, la rapidità, è un concetto maschile. L’energia delle donne è nell’attesa, nei nove mesi per concepire, nei processi ideativi e creativi».
Dopo distanze e indugi, ora c’è l’approdo alla scena. Che rapporti aveva col teatro?
«Una volta m’ha colpito a Parigi un Sogno di Shakespeare con attori giovani e bravissimi. Sono stata affascinata da un musical cui ho assistito a Broadway. Ma a tenermi lontana dalle imprese del palcoscenico è stata sempre la mia timidezza. Io faccio tanti film per reagire all’introversione, esponendomi solo nei minuti d’ogni ciak del cinema. In questa resistenza ha fatto breccia l’intensità senza fronzoli di Elvira , con Toni Servillo, visto a Parigi. E se ho detto un no a una proposta di tragedia antica a Epidauro ora è possibile che ci ripensi».
Ha interpretato cinque volte personaggi di artiste. In "Sangue pazzo" era Luisa Ferida, di nuovo un’attrice in "Ville-Marie", nella serie "Mozart in the jungle" una cantante lirica, sul palco "Maria Callas" e all’inizio dell’anno in "The Girl in the Fountain" ha affrontato il suolo di Anita Ekberg. A proposito, che Ekberg?
«È un film nel film, con la storia di un’attrice cui viene chiesto di interpretare il mito di Anitona, suscitandole dubbi e fobie pro e contro Ekberg, con un percorso che passa per i suoi film, le sue interviste, rioffrendo agli spettatori di oggi un certo tipo di cinema, di cultura madre. Non mi chieda (ride, ndr ) se ho rifatto la scena della fontana di Trevi».
Veniamo allo spettacolo "Maria Callas: lettere e memorie" ideato e diretto dal 33enne Tom Volf.
«Due miti, anche se lontanissimi, nello stesso periodo: Maria Callas a teatro, Anita Ekberg al cinema.
Noi chiamiamo coincidenze l’intromettersi di Dio in incognito. Tom Volf s’è presentato da me con una lettera della Callas piena di slancio per Onassis, e con una riflessione di lei sull’avere fede in se stessa.
M’ha convinta d’istinto. Ho accettato di rischiare la pelle. Ho provato, ho letto e man mano interpretato questi materiali, una ventina di testi, al Petit Marigny, e poi al Théâtre des Bouffes-Parisiens, stando accanto a un divano giallo, copia d’un canapé di casa sua, con estratti d’opera alternati alla mia voce.
Un’esperienza profonda, ripagata dal calore del pubblico, spingendo sulle corde d’una persona dotata di emotività forte al di là del genio lirico: sulla dualità di Maria e Callas, donna e soprano».
Come mai Tom Volf l’ha scelta per il ruolo?
«Non me l’ha mai detto. Emir Kusturica, scritturandomi per
Sulla Via Lattea , mi confidò: "Qualunque cosa tu faccia, sei sempre innocente, anche se fai un film come Irréversible ". Però Tom, anche biografo della Callas, è stato maniacale con me: ha trovato lui nell’atelier della Fondazione Marzotto di Milano l’abito nero di scena di lei che io indosso senza modifiche nello spettacolo. È una reliquia, per me. Alle prime rappresentazioni è venuto a vedermi Giorgio Ferrara, che m’ha invitata e programmata al Festival di Spoleto, con date che ora non so se confermate o rinviate. Nel frattempo questa "Callas" è richiesta anche a Londra, in Russia, in Grecia, a New York. Per me è una rivelazione, un regalo, un’altra soglia per conoscermi e comunicare».
Lei ha scoperto altri valori, con l’attuale maturità, e nelle condizioni di quest’emergenza?
«Ho verificato che la vita è un continuo cadere e rialzarsi, e ogni caduta, paura o malinconia ha un suo significato che ti migliora.
Nell’orrore e nelle sofferenze del virus che ci assedia si possono riscoprire cose essenziali come l’amicizia, la famiglia, l’amore, l’approfondimento di noi stessi e degli altri, del bisogno di lottare anche senza conclusioni, perché in genere si muore senza aver capito. Anche se un pochino...
Ora le circostanze mi vedono in questo sud ovest della Francia con le mie figlie Léonie e Deva, alle prese solo con l’essenziale.
Nell’ultima guerra non c’erano neanche gli alimentari e le farmacie. Ci riprenderemo pensando altre cose, forse la smetteremo d’essere la rovina del pianeta. Chissà».
Che personaggio le piacerebbe essere, e di quale autore?
«Una figura sarcastica e metaforica di Shakespeare».