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 2020  aprile 19 Domenica calendario

La vita a Codogno due mesi dopo

CODOGNO (Lodi) Sull’ingresso monumentale del cimitero c’è una parola scritta per i morti che oggi sembra pensata per i vivi. Resurrecturis, coloro che risorgeranno. Non è stato facile in questi due mesi distinguere quale fosse il confine, qui dove tutto è cominciato, fra il vivere e il morire. E guardando oltre il cancello sbarrato del camposanto si intravedono tombe ancora spoglie, resti di sepolture senza lacrime e senza parenti. C’è un prima e un dopo, nella storia di questo paese di 15 mila abitanti schiacciato nella terra di confine tra Cremona, Lodi e Piacenza. Ma quale sia stata la vita prima di quel 20 febbraio, che ha cambiato forse per sempre la storia dell’Italia, adesso non conta più niente. Perché qui nessuno vuole tornare indietro, a quel che era. Nessuno vuole dimenticare, lasciarsi alle spalle questi due mesi di pianti e morte. Anche perché le 186 vittime dal 20 febbraio, il triplo della media degli anni passati, qui si chiamano zii, nonni, fratelli. Quella di Codogno è piuttosto una vita nuova nella consapevolezza, composta e disciplinata, che niente sarà più come è stato. «Cosa ci serve adesso? — si chiede il sindaco Francesco Passerini mentre si muove nel campo base della Protezione civile — Ci serve soltanto ripartire. Nient’altro». In quella che due mesi fa è stata la prima zona rossa d’Italia i contagi sono praticamente fermi. Il contatore oggi segna 328 anche se, senza uno screening completo della popolazione, nessuno può dire quanti siano stati davvero i positivi. Ma a Codogno non si muore più. I manifesti funebri sono fermi agli ultimi giorni di marzo e nell’Ospedale civico, divenuto l’epicentro dell’emergenza dopo il ricovero del 38enne Mattia, il «paziente uno» d’Italia, la camera mortuaria è vuota.

«Oggi si respira»
L’ospedale sta ritrovando la normalità perduta e i soli pazienti Covid positivi arrivano da altre strutture, come l’ospedale di Lodi. Nell’area gialla e in quella verde, cinque reparti, sono occupati un centinaio di posti letto. Hanno sintomi da coronavirus. Nessuno di loro è grave e, anche se il pericolo non è scampato, si confida in una dimissione nelle prossime settimane. Oltre la porta automatica, c’è Cinzia Bruschi infermiera di sala operatoria avvolta da un camice verde e con guanti, occhiali, mascherina e visiera protettiva. «Oggi si respira. Oggi non mi sembra vero. Anche se il pronto soccorso e la rianimazione rimangono chiusi — racconta —. Abbiamo le protezioni, abbiamo sanificato, tutto è tornato sicuro. Come sono state quelle settimane? Non possiamo dimenticarcele». Intorno è una normalità sospesa. Nella consapevolezza che lo tsunami è passato, che a Codogno, prima che altrove, potrà sorgere il sole della fine dell’emergenza. «Abbiamo fatto sacrifici enormi, in poche ore la nostra vita è cambiata. Chi vive qui ha fatto uno sforzo collettivo per superare con diligenza e rispetto quel che nessuno poteva immaginare — dice il sindaco Passerini —. Lo abbiamo fatto senza aiuti dall’esterno, chiusi dai check-point, ma con le nostre forze, con i nostri volontari, con la generosità delle aziende del territorio. Questo deve essere chiaro, perché abbiamo sentito tante parole. Questa gente adesso ha bisogno di tornare a vivere». 
Una mano è arrivata dalla De Nora di Milano, società che produce l’Amuchina e che ha messo a disposizione della Protezione civile di Codogno le macchine elettrochimiche per creare ipoclorito di sodio per la sanificazione. «Dai primi di marzo ne abbiamo fatti 30 mila litri — racconta Marco Vignati, responsabile della colonna mobile di Lodi —. Abbiamo distribuito mascherine e viveri a tutti gli abitanti della ex zona rossa. Ci hanno chiamato dall’ospedale di Lodi per montare le tende per il triage esterno, non so se è un buon segno. Perché se ce lo chiedono dopo quasi due mesi significa che non è ancora finita». Nel capannone dove i volontari raccolgono e smistano riso, mascherine e disinfettanti, c’è una strana scultura realizzata con gli attrezzi con cui un tempo si lavorava la terra. Il Pepè il simbolo della fiera agricola. Oggi anche lui indossa una mascherina. Intorno i manifesti della 229esima edizione che a fine novembre ha portato a Codogno allevatori da ogni parte d’Italia. «Qualcuno sostiene che il contagio sia avvenuto così ma è impossibile, troppo presto. Avremmo già contato migliaia di morti».

Messe via radio, frequenza 100.350
Nel centro del paese, la chiesa di San Biagio è aperta. Ci sono una quarantina di candele accese per i defunti, mentre su un cartello, a fianco dei numeri d’emergenza contro il coronavirus, c’è un messaggio del parroco che annuncia messe sospese e che «ogni giorno i sacerdoti celebreranno alle 10 in radiotrasmissione su Radio Codogno, frequenza 100.350». Fuori, oltre il sagrato, la farmacia Navilli. Marcello Croci e le farmaciste Alessia, Martina e Loredana servono attraverso le vetrine. Come l’infermiera, anche loro indossano camice e visiera. Per attenuare la coda che non manca mai, hanno aperto uno degli ingressi dove un bancone è realizzato con una tavola di compensato sorretta da due cavalletti. «È largo più di un metro, distanza di sicurezza. Come vedete noi lavoriamo con le protezioni. Dovremo abituarci, e già ci siamo abituati. Qui abbiamo combattuto il virus, non dimentichiamocelo». Un cartello informa che sono disponibili mascherine Ffp2, l’oggetto del desiderio d’Italia: «Non vi dico come sono riuscito a farle arrivare... Non sono neanche care», sorride Croci. Dieci euro l’una.

La sartoria che produce mascherine
In via Roma c’è «Non solo vino», bottega d’alimentari dove Roberto Zamproni serve e raccoglie gli ordini per gli anziani clienti che non possono uscire di casa: «La spesa la portiamo noi». Di fronte c’è il negozio delle sorelle Antonella e Lina, sartoria da cerimonia oggi convertita alla produzione di mascherine. «Ne abbiamo un pacco pronto, di mattina ne abbiamo consegnate altre — racconta Lina —. Facciamo abiti da lavoro per le fabbriche che devono riaprire, come le acciaierie di Terni, e ci siamo messe a disposizione per le mascherine. Non potevamo restare qui ferme». 
Le vetrine dei negozi del centro hanno cartelli che annunciano saldi e ribassi fino al 70%. Sono i residui dei saldi di febbraio: i manichini sono nudi, le luci spente. In via Vittorio Emanuele nel negozio di Haytham Zara, 36 anni, arrivato dall’Egitto, si scarica un camion di frutta. Ci sono casse di arance, angurie e meloni. «Siamo stati chiusi una settimana. La prima. Poi per fortuna il sindaco ha fatto riaprire i negozi di alimentari». Si entra due alla volta, al massimo. In giro, sia al sabato mattina come al pomeriggio, c’è poca gente. Il minimo indispensabile. «Ci siamo abituati a rispettare le regole, dovrebbero farlo anche gli altri». Alle finestre delle case tricolori o lenzuola con arcobaleni e la scritta «andrà tutto bene». Lo stesso disegno appeso ai cancelli della Rsa «Opere pie riunite» di via Ugo Bassi, ma circondato da cuori colorati con i nomi delle ospiti. Qui, come nel resto della Lombardia, il tributo pagato dai degenti è stato pesante. 
In stazione, dove i treni sono tornati regolari, non ci sono passeggeri. Il silenzio è spezzato ogni 15 minuti dall’altoparlante che invita a non attraversare i binari. Andrea Calderone è uno dei titolari della Clinica veterinaria. Durante l’emergenza andava con il furgone ai check-point per farsi consegnare gli animali da curare. Davanti all’ingresso della clinica ha montato una tenda con un tavolo per le visite: «È il nostro triage. Prima di fare entrare animale e padrone facciamo le verifiche, misuriamo la temperatura come da prescrizioni. Altrimenti il padrone aspetta fuori. Sappiamo che gli animali domestici non passano il Covid, ma potrebbero essere positivi se lo erano i padroni. Per questo con l’università di Bari abbiamo pensato di avviare uno studio sui cani e i gatti di Codogno. Faremo tamponi e analisi del sangue. Perché Codogno è il posto migliore per studiare il virus e fare ricerca. Oggi che, incrociando le dita, sembra che ci siamo salvati».