Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 19 Domenica calendario

Meraviglie di Wilton House

Quando seppi che il misterioso Mr W.H. era forse William Herbert, il primo conte di Pembroke a cui sono dedicati i sonetti di Shakespeare, mi innamorai di Wilton House prima di averla vista. Non ero il solo ad aver nutrito questo ineffabile sentimento, riacceso ogni volta che vi sono tornato col passar degli anni. Fu una delle prime case di campagna che visitai in Inghilterra e a questo mi portò anche un consiglio di John Pope-Hennessy in una delle molte occasioni in cui lo vidi quando si preparava a Londra la mostra The Age of Neoclassicism attorno al 1970: «Vai a leggere quello che scrisse Sir John Summerson, molto più arguto di quello che scrivono oggi i tuoi coetanei» (come sempre dalla bocca di John non usciva mai una buona parola che non fosse seguita da qualche cattiveria). Lo scritto di Summerson era breve ma molto sottile e riuscii a trovare anni dopo un volume (Great Houses of Europe, a cura di Sacheverell Sitwell) con quel delizioso saggio su Wilton House. Un mio amico del Victoria and Albert Museum, Desmond Fitz-Gerald (già menzionato in uno di questi miei piccoli articoli) mi accompagnò a visitare la bellissima casa: Desmond era a sua volta amico del sedicesimo (o era il diciassettesimo?) conte di Pembroke che mi consentì vedere ogni cosa: ne avrò dimenticato infiniti particolari ma resta ancora uno splendore incancellabile nella mia traballante memoria.
Il titolo di quelle righe deliziose (A classical scene created by centuries of discernment) è perfetto: si parla di come appariva ai conoscitori inglesi il palazzo di campagna dei Pembroke con quella chiarezza che i critici d’arte e di letteratura sembrano avere smarrito dopo la scomparsa di Francis Haskell e di Summerson. Ma leggiamo quel che quest’ultimo scrisse per intendere l’ammirazione che Wilton desta in me. «Per l’uomo inglese del tardo Settecento Wilton era la casa che più di ogni altra lusingava l’orgoglio nazionale in materia di buon gusto e di risultato artistico. Possedeva tutto. Aveva un portico attribuito con plausibilità a Holbein; una facciata e degli appartamenti di parata creati da Inigo Jones; grandiose tele di Van Dyck; una collezione di marmi antichi; il ponte palladiano disegnato dal Conte-architetto; e infine un arco trionfale di William Chambers. In breve, Wilton rappresenta tutto quel che per il gusto inglese è solido, approvato e immoto di fronte all’assalto delle onde della moda. Un classico».
Lo stesso Summerson spiega con garbo come quelle affermazioni fossero un po’ esagerate dall’entusiasmo. Il portico non è veramente di Holbein e la facciata sud è solo in parte di Inigo Jones, responsabile del solo disegno, ma eseguita dal francese Isaac de Caux. E qualche altra verità resta da spiegare ancora un po’. La storia della casa è lunga e complessa mentre quella della famiglia è più chiara di quella di altre dinastie inglesi: a partire da William Herbert, primo Conte di Pembroke tutto segue l’ordine come può esserlo quello di una famiglia nobile lungo diversi secoli. Il Conte-architetto, ad esempio, fu il nono Conte di Pembroke al quale furono attribuiti disegni e progetti di edifici non sempre su fondate ragioni. Una cosa pare certa, fu lui a ideare il Palladian Bridge, il ponte palladiano dei giardini di Wilton certamente aiutato dal suo assistente Roger Morris: un nobile edificio meravigliosamente teatrale con un risultato forse più felice del Ponte di Rialto a Venezia che, come sappiamo, non è affatto opera del Palladio.
La raccolta di marmi antichi proveniva dalla famosa collezione inglese, di Lord Arundel, ma ne era solo una parte e non quella più importante: non sono io a dirlo ma Adolf Michaelis (nel suo celebre Ancient Marbles in Great Britain del 1882) che non approvava l’eccessivo interesse dell’ottavo Earl of Pembroke per i busti ai quali voleva sempre trovare un nome inventato. Questa tendenza a quanto pare l’avvicinava al grande collezionista italiano di antichità, il Cardinal Alessandro Albani, definito da Winckelmann, «l’audace prelato» (in realtà Albani era audace non solo nel battezzare marmi classici).
I molti interventi che si susseguirono lungo un paio di secoli proseguirono con l’arrivo nel 1800 dell’architetto James Wyatt il quale rispettò l’opera di Inigo Jones ma ignorò i lavori di altri artisti che evidentemente non riteneva alla propria altezza. In molti casi Wyatt non distrusse ma ritoccò, parzialmente rifece o addirittura spostò seguendo il proprio estro, talvolta con successo: così accadde, ad esempio, con l’arco trionfale che Sir William Chambers aveva disegnato perché fosse posto alla sommità della collina verso il 1755 e che Wyatt fece trasportare perché fungesse da accesso alla proprietà aggiungendo ad ambo i lati due costruzioni gemelle di elegante semplicità. Wyatt, pur non essendo dotato della genialità dei suoi predecessori, intese bene il senso delle proporzioni e della comodità e non si azzardò a deturpare l’impeccabile armonia degli interni realizzati da John Webb, allievo e parente di Inigo Jones che seguì a distanza, benedicente, l’esecuzione dei suoi progetti per i magnifici cubi delle solenni stanze di rappresentanza, soprattutto quella del Double Cube, disegnata appositamente per ospitare l’immenso dipinto di Van Dyck sovrastante l’intera raccolta di quadri di Wilton composta di notevoli opere di Lorenzo Lotto, di Rubens, di Rembrandt, di Ribera, di Batoni e ancora di Van Dyck che a Wilton non solo è rappresentato dal tonante capolavoro menzionato prima ma anche da un’altra tela più intima, quasi commovente, raffigurante i primi tre figli di Carlo I. Wilton è una residenza diversa da tutte le altre con pari attenzione per le tre Arti maggiori accanto a un giardino in cui trionfa al suo meglio la Natura.