Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2020
Il custode delle ceneri nel Gange
Dice di sentirlo arrivare quando tutto sta per finire. Nell’ora in cui la notte muore, a mezzanotte, e il giorno si annuncia nell’oscurità, Jagdish Chaudhary si affaccia sul Gange dalla terrazza di casa e attende. Un alito di vento fa oscillare i panni stesi e annunciandosi con tale modestia lo spirito di Shiva soffia all’orecchio del suo servo più fedele. Nessuno sa cosa sussurri il dio della distruzione e della creazione cosmica, forse un patto segreto, Jagdish non rivela, ma è a lui, a quest’uomo che ha il corpo di una divinità, possente e statuario, a quest’uomo che guarda con dolcezza e furore di braci, che il dio selvaggio, l’urlante, ha affidato il compito di accompagnare ogni vivente alla fine. Jagdish Chaudhary è il responsabile del crematorio di Benares. Per tutti è Dom Raja, il re dei fuoricasta, unico paria, unico impuro nell’India intera a potersi fregiare di un titolo nobiliare. Era stato suo nonno, a sua volta colossale, alto due metri, il braccio che sollevava con agilità una ruota di pietra di cento chili, morto a centoundici anni nel 1970, a pretendere di essere riconosciuto parigrado del maharaja di Varanasi. Al sovrano, chiuso nello splendore del suo palazzo, quel gigante aveva ricordato la leggenda di Kalu Chandri, antichissimo addetto alle cremazioni, anche lui fuoricasta, che aveva offerto al re Harischandra, ormai povero dopo aver venduto la moglie, il figlio e il regno per volere del dio Indra, l’unico lavoro degno di un senza nulla: la cura dei morti e dei loro resti. Quel titolo di re per aver salvato un re dalla miseria e dall’umiliazione era diventato ereditario, come in ogni famiglia aristocratica. Inoltre il nuovo signore dei fuoricasta aveva preteso il simbolo supremo del potere, una tigre, e per questo aveva fatto erigere due felini di pietra dipinta, con le fauci spalancate, sulla balaustra del grande terrazzo di casa, una dimora antichissima sul Meer Ghat a pochi passi dal crematorio.
A questa casa, dove era vissuto anche il figlio e ora vive il nipote, che sedici anni fa ha ereditato dal padre lavoro e titolo regale, si giunge attraverso un dedalo di stradine nel cuore più vecchio di Benares, la città santa, la città del pellegrinaggio e della luce. Un minuscolo vialetto dalle pareti blu, su cui appare un corpo avvolto nel sudario e un altro sulla pira, e ci si ritrova davanti al portone. Oltre, nella corte, un toro e una vacca riposano uno accanto all’altro. Anche Jagdish Chaudhary è sdraiato su un enorme letto, un trono. Si è appena svegliato nel primissimo pomeriggio dopo aver compiuto la mattina una delle cinque visite al mese, un rituale, al ghat di Manikarnika. Ma tra queste mura spesse, dipinte di rosso, di verde e di azzurro, dimora di oltre quaranta familiari, la moglie, le tre figlie, il figlio piccolo, e poi le famiglie degli altri due fratelli di Jagdish, non arriva il fumo, né il caldo, né l’odore e nemmeno il nero di fuliggine della decina di pire che bruciano poco lontano, contemporaneamente, in un ciclo senza fine di giorno e di notte.
Ogni anno ventiquattromila hindu sono consegnati alle fiamme dei crematori di Benares, quello principale di Manikarnika, dal nome dell’orecchino che Shiva in estasi perse nella cavità riempita dal sudore di Vishnu in meditazione, e gli altri, il crematorio di Harishchandra e le singole pire che illuminano i vari ghat. Chi muore a Benares e affida qui il suo corpo alle fiamme, e disperde le ceneri nel Gange interrompe il ciclo doloroso delle reincarnazioni ed è finalmente libero. Ogni giorno Jagdish Chaudhary, Dom Raja veneratissimo e sostenitore di Narendra Modi nelle ultime elezioni del maggio 2019 – «è l’unico politico che si batte per migliorare l’istruzione di noi fuoricasta», dice – sa dell’arrivo di intere famiglie che insieme si stringono intorno a chi non c’è più. Sa che il figlio più grande chiederà il prezzo della legna, dieci rupie al chilo per quella migliore ben secca, e sa che ne dovrà acquistare almeno trecento chili, se non quattrocento perché le fiamme disfino i corpi. Quando era morto suo padre, il precedente Dom Raja, la pira funeraria aveva raggiunto la cifra regale di duemila chili di legna «e ognuno dei dipendenti portava un chilo, due chili, l’omaggio al suo sovrano». Allora era stato il fratello maggiore di Jagdish ad accendere la pira con la fiamma attinta dal braciere sacro che splende accanto al crematorio. E ancora oggi questa fiamma segna l’unico contatto tra caste altrimenti lontanissime. Solo un impuro, perché tocca la polvere, la sporcizia e il corpo dei morti, può offrire il fuoco che avvia la fine più propizia. E per questo tutti si inchinano a Dom Raja, a cui spetta un’offerta e l’oro, un’otturazione, una moneta, che i suoi aiutanti ricercano sciacquando le ceneri nelle acque del fiume, prima di affidarle alla corrente. Nessuno protesta, anzi è un onore, quando i tronchi più grandi di ogni pira, appena toccati dal fuoco, varcano la soglia della dimora del re del crematorio e raggiungono un sottoscala buio, accatastati uno sull’altro, dove le donne di casa li recuperano per accendere il fuoco, cucinare e scaldare il latte appena munto. Sta arrivando una tazze di tè. Il tè per i vivi, scaldato dal calore dei morti.
Il corridoio che porta alla legnaia prosegue fino alla palestra, l’akhada, dove da più di un secolo fino a pochi anni fa si allenavano i pehelwan, i lottatori di wrestling indiano. Oggi l’arena è deserta, tranne per il figlio tredicenne di Dom Raja, Om, in onore a Shiva, che è già capace di far roteare i jodi, le mazze di legno di dieci chili l’una. Quando l’esibizione finisce, il figlio raggiunge il padre sulla terrazza e si abbracciano. Il Gange scorre placido davanti a loro, i fedeli si immergono, nuotano, pregano, i cani si rincorrono e i cuccioli, nati poche settimane prima, inseguono le madri per succhiare il latte. La sera si addormenteranno tra le ceneri del crematorio, ancora tiepide. Spetta a loro, agli animali e ai figli di re, ricordarci di non avere paura, perché qui tutto continua.