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 2020  aprile 19 Domenica calendario

A tu per tu con Benedetta Tobagi

Il sorriso aperto e la fisionomia del volto ricordano subito – a parte i ricci che lo circondano – i tratti del padre. Dallo schermo del pc (è un’intervista al tempo del coronavirus!) fluisce perfettamente anche la passione con cui Benedetta Tobagi racconta la figura di Walter, ucciso quarant’anni fa dai terroristi della Brigata 28 marzo. Storica e scrittrice, rievoca il percorso che l’ha portata a scriverne la storia nel libro Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi, 2009).
Aveva appena tre anni quando la mattina del 28 maggio 1980 a Milano due dei ventenni della banda colpirono alle spalle il giornalista del «Corriere della Sera», con l’obiettivo di accreditarsi come combattenti “di peso” presso le Brigate Rosse dopo aver già gambizzato Guido Passalacqua (caposervizio a «Repubblica») tre settimane prima. 
Quello di Benedetta è stato quindi un lungo e lento recupero di conoscenza del padre (che di anni ne aveva 33), attraverso gli scritti – appunti, articoli, inchieste, libri –, la voce custodita nelle cassette, i documenti, le testimonianze e i racconti di tante persone che nel tempo ha ascoltato. Un vero e proprio giacimento al quale ha attinto e che le ha permesso di ricongiungersi idealmente a chi le era stato sottratto: «Ho cominciato seriamente quando stavo finendo l’università. Ho aspettato di essere grandicella, attorno al 2000, perché sapevo che l’impatto emotivo sarebbe stato forte. Avevo la sua giacca, la sua sciarpa, altre sue cose, ne leggevo i libri ma non avevo affrontato le carte del processo. In quell’epoca non erano ancora partiti i progetti di digitalizzazione degli atti processuali relativi agli anni di piombo di cui poi sono stata grande sostenitrice, non c’era tutto l’archivio del Corriere online, passavo giornate intere alla Sormani (biblioteca di riferimento, a Milano, ndr)... È stato un tempo lungo ma necessario. Lo gestivo in base a quello che mi sentivo di fare, che desideravo fare. Così ho potuto metabolizzare meglio tutto», racconta con voce sicura, un maglioncino nero a collo alto, le linee pulite di una libreria bianca, colma e ordinata, alle sue spalle.
È emersa, da quella ricerca, la ricostruzione meticolosa di un professionista che aveva cominciato da giovanissimo, figlio unico emigrato dall’Umbria, il papà calzolaio (che a Milano troverà un posto da ferroviere), la mamma casalinga. Gente semplice dai valori solidi. Già tra i banchi del liceo classico Parini e dalle colonne della «Zanzara», il giornalino che nel ’66 fece scandalo per l’inchiesta sugli adolescenti e il sesso, si intravvede il futuro di Walter Tobagi: si fa le ossa con le cronache sportive, collabora all’«Avanti» e all’«Avvenire», entra al «Corriere dell’Informazione» e poi spicca il volo al «Corriere della Sera» dove approda nel ’76. All’attività giornalistica si affianca quella sindacale, cui dedica altrettanto impegno (proprio con una tesi sui sindacati in Italia nel secondo dopoguerra si era laureato in Storia con Brunello Vigezzi), fino a diventare presidente della Lombarda, l’organismo che tutela i giornalisti della regione. Su entrambi i binari, sono le idee socialiste e lo spirito riformista a improntare l’attività di Tobagi, che indaga le dinamiche del lavoro e il fenomeno terrorista nelle sue varie articolazioni. Ed è esattamente questo approccio progressista che i brigatisti non perdonano e puntano a cancellare, come già era accaduto con magistrati, altri giornalisti ed esponenti della società civile ben lontani dalla destra conservatrice.
Un apparente paradosso su cui si sofferma Benedetta: «L’idea dell’attacco al riformismo per abbattere lo Stato e quindi provocare un presunto innesco rivoluzionario è qualcosa che è scritto nella cultura di molti gruppi di ultra sinistra: da lì usciranno tanti giovani che andranno a ingrossare le fila di organizzazioni che già all’inizio degli anni 70 individuano proprio nel riformismo il nemico principale. Riflettere fino in fondo sulle storie di Emilio Alessandrini, Guido Galli, Guido Rossa e tutte le intelligenze che sono state eliminate, al di là delle vicende personali, da un lato ci restituisce il dato brutale del danno che il terrorismo di sinistra ha fatto alla società; dall’altro costringe a considerare le pesanti responsabilità di certe prese di posizione ideologiche maturate molto prima, in gruppi come Lotta continua e Potere operaio che, quando si sciolgono, vedono significative migrazioni di ex militanti, soprattutto persone impegnate nel servizio d’ordine, nelle organizzazioni terroristiche».
Il processo per il delitto Tobagi procederà spedito per via del pentimento di uno dei due esecutori materiali, Marco Barbone (21 anni, figlio di Donato, dirigente del gruppo editoriale Sansoni controllato da Rizzoli) che svela ogni particolare. Con Paolo Morandini (figlio del critico cinematografico Morando), Mario Marano, Manfredi De Stefano, Daniele Laus e Francesco Giordano aveva organizzato e compiuto l’attentato il giorno 28 in ricordo dei quattro brigatisti, uccisi due mesi prima, il 28 marzo, in un blitz dei carabinieri a Genova. Episodio, quest’ultimo, su cui Tobagi aveva scritto uno dei suoi articoli più citati, dal titolo «Adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile». Barbone, che sconterà poco più di tre anni, «sul piano delle dichiarazioni è apparso mostruoso, quanto alla successione di date e indicazioni nominative», dirà il pubblico ministero Armando Spataro sottolineando il ruolo cruciale del pentito. 
L’esigenza di Benedetta è stata anche quella di fare chiarezza su un pezzo della storia d’Italia. Meno di un anno dopo l’assassinio, vengono scoperti gli elenchi degli affiliati alla Loggia massonica P2 nei quali compaiono i nomi dei vertici della Rizzoli e quello di Franco Di Bella, direttore del «Corriere della Sera». Nel dicembre 2003 e poi nell’estate 2004 delle interpellanze parlamentari ribadiranno che “Tobagi poteva essere salvato” e che non si era fatto abbastanza per garantirne la protezione nonostante il clima pesantissimo di quella fase. «Il contatto con tutti gli aspetti della vicenda – riflette l’autrice – era doloroso. Proprio quel periodo in cui sono riemerse vecchie polemiche mi è costato molto dal punto di vista personale. Ti trovi in una situazione in cui da una parte vuoi fare tutto il possibile perché sia fatta luce, per capire tu stessa in primis, ma anche perché la chiarezza massima è una forma di giustizia, di accertamento delle responsabilità. Spesso mi sono sentita smarrita di fronte alla tortuosità, all’incompletezza delle informazioni, alle strumentalizzazioni politiche. La decisione di scrivere un libro è maturata nel tempo ed è come se tutto poi avesse trovato un suo posto. Adesso si pubblicano volumi di storia su questi argomenti, ma le vicende del terrorismo italiano restano sempre un po’ impigliate nella cronaca...quella che per me è stata una storia personale è un tema enorme».
Nella ricostruzione colpisce l’assenza dei partiti, a cominciare dal Pci, uno dei primi bersagli del terrorismo. Non ci sono voci o testimonianze che ricordano il giornalista, un punto su cui l’autrice è molto netta: «La memoria di mio padre è stata coltivata soprattutto dal partito socialista: era un’epoca in cui ogni parte politica, ogni soggetto aveva i propri martiri. La prima volta che un esponente degli allora Ds, Beppe Giulietti, è venuto a una celebrazione, c’era già stata, appunto, la svolta della Bolognina (novembre 1989, ndr). Questa era l’Italia dei partiti, la conflittualità tra socialisti e comunisti era fortissima. Del resto ugualmente assenti furono i democristiani o i repubblicani: Tobagi era il martire del Psi. Essendo un giornalista, era un personaggio noto e molto commemorato da chi aveva idee e sensibilità vicine alle sue. Quando ho incontrato gli orfani dei poliziotti uccisi, le loro madri che hanno vissuto nella miseria e nell’oblio, mi sono resa conto della ferita e dell’umiliazione provocate da quell’esperienza. Un importante cambiamento c’è stato nel corso degli anni 2000, quando si sono creati spazi di commemorazione istituzionale che fossero comuni, ospitati in una sede alta come il Quirinale: un modo per non appiattire nell’indistinto le diverse storie e al tempo stesso coltivarne insieme la memoria».
La stessa memoria che Benedetta Tobagi vuol trasmettere ai ragazzi, andando nelle scuole, animando dei laboratori che aiutino a comprendere quel periodo: comincia dalle caratteristiche dell’Italia repubblicana, si diffonde sulla lunga stagione del terrorismo politico, spiega che cosa è stato lo stragismo anche attraverso la “Rete degli archivi per non dimenticare” o l’archivio “Flamigni”. «A me interessa che la dimensione della memoria sia il più possibile tenuta in relazione con la dimensione della conoscenza storica, della complessità degli avvenimenti. Per questo cerco sempre nuovi strumenti, materiali, percorsi», sottolinea. A 11 anni dalla pubblicazione di Come mi batte forte il tuo cuore, l’inesauribile ricchezza di documenti e inediti lasciati dal padre continua a essere un punto di riferimento, «posso riascoltarlo mentre parla con Giorgio Bocca per nove cassette destinate a un libro-intervista, o con Sciascia, o con Saragat che palesemente non vuole rispondere a una domanda... Alcune cose che avevo scoperto 12 anni fa adesso mi parlano molto di più». In conclusione, si emoziona Benedetta, la voce che si fa più bassa, «mi sento una donna molto fortunata. Negli anni ho avvertito sempre di più una vicinanza interiore con mio padre, è profondamente parte della mia vita. La sua l’hanno spezzata troppo presto, ma ciò che lui è stato continua a irraggiare».