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 2020  aprile 19 Domenica calendario

Intervista allo scrittore Michael Dobbs

La barba è lunga di qualche giorno. Pur non perdendo la consueta affabilità, lo sguardo e la voce di Michael Dobbs tradiscono un velo di tristezza. «Ho perso amici, e anche un parente, contagiati dal coronavirus. È una vicenda che mi accompagnerà per sempre. Non perdo l’ottimismo, ma sono tante le lezioni da apprendere in questo momento storico», dice l’autore di House of Cards.
Dopo il successo mondiale della serie con protagonista Kevin Spacey, dalla creatività e dalla conoscenza della politica di Michael Dobbs, classe 1948, membro del partito conservatore inglese e dal 2010 della Camera dei Lord, a lungo collaboratore di Margaret Thatcher, è nato un nuovo ciclo di thriller, che presto diventerà una serie televisiva. L’eroe riluttante (Fazi, 286 pagine, 16 euro, traduzione di Giuseppe Marano) è il terzo episodio con protagonista lo 007 Harry Jones.
Dobbs, chi ha amato, o odiato, Frank Underwood, che cosa deve attendersi da Jones?
«Non c’è nulla del cinismo di Frank. La carriera nell’esercito britannico gli consente di aprire molte porte, nonostante il carattere ribelle. Nessuno può impartirgli ordini. Può perdere il ruolo nell’esercito, le elezioni, ma non l’indipendenza». 
Perché non è una spia qualsiasi? 
«Non sappiamo nulla dei sentimenti che animano James Bond. Harry invece ha un volto più umano, nel quale possiamo identificarci. Si sente nella posizione di poter risolvere le ingiustizie senza dover seguire tutte le regole. Lotta contro avversità psicologiche». 
Come finisce nell’ex Repubblica sovietica del Kirghizistan?
«Ha una missione: deve riportare a casa l’amico e collega Zac Kravitz, che aveva salvato sua moglie. Si inserisce in una visita diplomatica di deputati britannici, raggiungendo la capitale del paese. E ripiomba nell’architettura e nel clima della Mosca degli anni Sessanta». 
Stavolta quale lato oscuro della politica ci rivela?
«Jones mostra il volto dell’autoritarismo e della corruzione, che si celano dietro le democrazie incompiute sorte dall’implosione dell’Unione Sovietica. E svela come esse interagiscono con l’Occidente. L’autocrazia mascherata è una forma di governo dominante nel mondo». 
Crede che la politica uscirà diversa dalla pandemia?
«I cittadini porranno più domande fondamentali a chi governa. La situazione è stata gestita appropriatamente? Con quali presupposti guarderemo avanti? Si acuirà il conflitto tra il liberalismo d’ispirazione europea e le spinte nazionalistiche. Per l’Unione Europea si pone una sfida di solidarietà del sistema non più rinviabile tra l’apparato burocratico e l’anima politica».
Come immagina la ricostruzione?
«Non può esistere senza la cooperazione. È forse la principale lezione impartita dalla pandemia».
Secondo le stime dell’ufficio finanziario dal Ministero del tesoro britannico, tre mesi di blocco provocherebbero la perdita di due milioni di posti di lavoro e un crollo del Pil pari al 13%. È sostenibile il doppio impatto Brexit-Covid 19?
«Non nego gli aspetti dirompenti dell’uscita dall’Ue, ma non è una scelta isolazionistica. Nessun governo ha la ricetta pronta per traghettarci fuori dalla crisi. Il nostro obiettivo resta la realizzazione di una Gran Bretagna nuovamente globale, più agile e con un rinnovato spirito d’impresa, capace di interagire con tutti i principali attori mondiali».
Le lacerazioni interne della Brexit vivono una tregua?
«È riapparso un grande senso di comunità. Davanti a tale emergenza era plausibile che accadesse, ma non scontato. L’affaire Brexit non è archiviato ma sfocato».
Pensa che la malattia influirà sullo stile di vita e politico di Boris Johnson?
«Non possiamo affermarlo con certezza, ma ritengo che l’aver sfiorato la morte induca delle riflessioni in un uomo di 55 anni. Ha molti elementi da considerare e valutare interiormente anche sul suo corso politico. Probabilmente verrà fuori un Boris più forte e più disciplinato. La malattia ne mette alla prova la leadership».
Dalla storica sconfitta di John Major nel 1997 alla prematura fine politica di Cameron e May, le leadership tra i conservatori, ma non solo, tramontano sempre più rapidamente. Sarà diverso con Johnson?
«Lui è in una posizione di forza come non succedeva da anni a un Primo ministro. Ha una maggioranza parlamentare solida. Vanta ancora un buon credito con l’elettorato. Ha tre caratteristiche significative. Sa delegare. È in grado di comunicare in modo efficace, malgrado le sue controversie. Ha il senso della storia. Guarda lo scenario più ampio, oltre le contingenze, e trae le lezioni dagli eventi».
Quali forze porteranno il Regno Unito fuori dalla tempesta?
«Non possiamo affidarci alla nostalgia della grandeur geopolitica persa. Serve una grande opera economica di ricucitura del divario sociale, che è destinato ad aumentare, con interventi sul sistema fiscale».
Qual è la funzione della famiglia reale in questa fase?
«Il messaggio televisivo della Regina alla nazione ci ha ricordato che, quando tutto sembra sfuggire dal nostro controllo, abbiamo un riferimento solido. A novantatré anni lei ci ha donato uno splendido messaggio churchilliano. Nel paese era l’unica figura in grado di farlo».