Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 18 Sabato calendario

Biografia di Franco Rella raccontata da lui stesso

In Cuore di tenebra Conrad evoca l’orrore, ossia la scoperta spaventosa che «al fondo delle cose non c’è nient’altro che l’assenza di senso e quindi l’orrore», strappo questa frase dal libro di Franco Rella Territori dell’umano (edito da Jaca Book), e mi viene di pensare che l’orrore peggiore è morire da soli. Averne la consapevolezza misura la nostra impotenza e sempre più confonde o abolisce il confine tra ciò che è umano e ciò che è disumano: «Ho l’impressione, mi dice Rella, che l’uomo sia davvero capace di tutto. Non è una novità. Ma prendi questa storia dei vecchi, della loro sacrificabilità, che alcuni insensatamente, egoisticamente, cinicamente, hanno proclamato. Mi ricorda la Rupe Tarpea, il sacrificio dei deboli. Come possiamo far rientrare ragionevolmente queste frasi nel territorio dell’umano? Canetti diceva che quando muore un vecchio muore più vita».

Nel senso che muore più esperienza, più passato, più storia?
«Muoiono gli anni che costoro hanno interpretato e vissuto. Li ritroveremo — o saremo capaci di ritrovarli — solo a patto di vedere i vecchi come dei bambini diversi che se ne vanno. Come dei volti antichi ma prossimi alla nostra empatia».
Tu ti interroghi sul volto. E a me vengono alla mente quei volti intubati che affiorano dai servizi televisivi.
«Quei volti mascherati nascondono la sofferenza, azzerano le diversità e ci dicono più di ogni altra cosa che siamo davvero sulla frontiera dell’umano.
Eppure è una frontiera attraversabile se serve per
salvare vite.
«Certo, non è in discussione questo. Quando nel 1967 Christian Barnard effettuò il primo trapianto a cuore aperto aprì la strada non solo al progresso della medicina, ma anche al rapporto che l’uomo ha con se stesso e con il proprio corpo. Da allora ebbe inizio un grande dibattito sui trapianti fino ad arrivare a immaginare la creazione di organi clonati pronti per futuri trapianti. La conoscenza del genoma ha aperto alla possibilità di intervenire già a livello embrionale per togliere future possibili malformazioni o malattie».
È il ruolo delle tecno-scienze, con la loro promessa implicita di ridefinire l’umanità dell’uomo.
«Esse combattono spesso vittoriosamente malattie considerate fino a qualche anno fa inguaribili. Ci regalano più tempo di vita, aspirano alla realizzazione di un tipo umano perfettamente sano. La sola cosa che non possono donarci è la formula che sconfigga la sofferenza».
Forse perché non c’è una formula, non c’è una ricetta che ci indichi un approdo sulla terra della felicità.
«Formule tante ma tutte fallite. Occorrerebbe leggere o rileggere alcuni passi dello Zibaldone per capire quanto la sofferenza sia una condizione inscalfibile.
Leopardi la paragona a un giardino calpestato e infestato. Rovescia mirabilmente l’immagine dell’Eden, dell’incanto armonioso e felice, nel suo perfetto contrario. Il paradiso non è più il luogo del bene, poiché tutto quello che è risulta essere male.
Viene meno il compiacimento divino rispetto al bene».
Il male diversamente dal bene è l’estremo. C’è l’estremo nella letteratura, come tu hai spesso indicato. E c’è l’estremo nella vita, oggi ben più dirompente.
«La verità ultima del nostro essere umani, la verità stessa, è l’estremo. A questo estremo si sono richiamati i grandi scrittori, i grandi poeti, i grandi artisti. Kafka, Proust, Bacon, Schönberg lo hanno esplorato per noi».
In che modo?
«Spingendosi fino al limite dell’umano. È quello che cogliamo con Odradek, descritto in un racconto di Kafka. Si tratta di una creatura strana, simile a un rocchetto di filo. Ha qualcosa delle sembianze umane ma non è umano. È appunto una figura estrema. Che si sarebbe potuta incontrare nel campo di sterminio di Auschwitz e che Primo Levi descrive come il "senza nome"».
È la vita quando non è più vita, quando essa si spinge oltre ogni ragionevole comprensione. Non è un po’ quello che stiamo vivendo?
«Anche noi tutti, nell’emergenza di questi momenti, siamo in una situazione estrema. Siamo o rischiamo di essere come i dannati della terra che da sempre patiscono l’estremo. È una verità che conosciamo attraverso i nostri corpi e le nostre anime».
È una condizione che ti coinvolge anche personalmente?
«Non sono un’eccezione. Sperimento questo senso di estremo anche su di me. Per esempio l’insonnia che mi afferra la notte e la sensazione del peso del corpo che si gira e si muove, inquieto, mentre nella mente affiorano immagini che subito si spezzano e si frantumano. Borges parla del nostro tentativo di dominare la notte con "la magia inutile di una respirazione regolare". Ma la magia si rompe quando il corpo bruscamente cambia posizione. E mi sembra di stare accartocciato e inquieto nel letto come in un grembo inospitale».
In fondo questa condizione difficile è pur sempre familiare in uno come te più abituato di altri alla solitudine e al vivere in casa.
«Ho sempre amato la solitudine e il vuoto. Eppure, l’improvviso mutamento del paesaggio — le piazze deserte che sembrano evocare la metafisica di De Chirico o lo squarcio del suono delle ambulanze che rompe il silenzio — mi provoca sconcerto e mi destabilizza. E mi rendo conto che in fondo anche per me che rifuggo dai luoghi sociali mancano volti, espressioni, voci di cui magari non distinguerei le parole ma che mi afferrerebbero suggerendomi storie possibili».
Accennavi all’insonnia e al corpo che si ribella.
«Ci sono momenti in cui il corpo diventa il teatro su cui tutto può rappresentarsi: l’inabissamento nel dolore e nella solitudine, il faccia a faccia con la morte. È con il nostro corpo che urtiamo contro le cose. Credo che l’odierna emergenza del corpo sia diventata un’esperienza decisiva, un orizzonte esistenziale».
Ma il corpo oggi si declina in tanti altri modi. A partire proprio dall’impedimento del contatto. È come se il virtuale estendesse ulteriormente il proprio dominio.
«C’è stata e c’è la tentazione di staccare il corpo da noi, di farne una parte estranea. Descartes parlava di res extensa, un’entità misurabile e dominabile. Oggi, dopo il corpo cyborg, si è arrivati a teorizzare il corpo come un insieme di energie totalmente smaterializzato dalla carne, "un web di differenziazione post-organica" come è stato detto. Anche il divieto di contatto per impedire il contagio — sebbene rientri nelle strategie dell’igienizzazione — punta all’isolamento e all’anomia. Ma il corpo non è esorcizzabile, riemerge sempre, inquieto e inquietante, portando con sé un grumo di sensazioni che dobbiamo cercare di dipanare. Diceva Marina Cvetaeva che è dal corpo che sporgono anche le schegge dell’anima».
Qual è il rapporto con il tuo corpo? Come è cambiato nel mutare delle età?
«Potrà sembrare paradossale, ma il rapporto con il mio corpo è rimasto sostanzialmente uguale nelle mie varie età. Oltretutto, non conosco il silenzio del corpo.
Non c’è un attimo della mia vita in cui non ne abbia sentito la voce. Talvolta squillante, talvolta solo un remoto mormorio. Credo che la familiarità con la voce del proprio corpo sia la familiarità anche con la voce della fragilità e della morte. Niente di cupo. Anzi, in certi momenti, è gioia riconoscerla».
Eppure, la fragilità innesca il sentimento della paura. Soprattutto oggi che il senso di invincibilità dell’Occidente sembra venuto meno. Siamo passati dalla paura verso l’altro (il migrante) alla paura verso noi stessi (il contagio). Cosa è cambiato secondo te?
«Ben poco, sono paure che si somigliano. Nei confronti dei migranti abbiamo adottato pensieri e strategie molto simili ai processi immunitari messi in atto con il virus. Non solo sulle frontiere, ma penso anche al disagio, talvolta di pericolo, che si avverte all’avvicinarsi del migrante. Disagio e senso del pericolo che proviamo entrando in un qualsiasi spazio ora abitato per lo più da esseri mascherati».
C’è stato il salto dalla maschera sociale a quella sanitaria.
«Questi volti mascherati ci dicono, più di ogni altra cosa, che siamo giunti sulla frontiera dell’umano.
Nell’ora in cui dovrebbe essere più riconoscibile, il volto cade nell’indistinto. Mostra l’impossibilità di un faccia a faccia. Aggiunge alla distanza sociale quella dell’anima».
Parlando di paure quali sono quelle che provi o temi?
«Quasi sempre le mie paure sono determinate da situazioni concrete, per degli eventi di cui avverto l’eco di una minaccia e rispetto ai quali mi sento indifeso. Esiste però anche una paura apparentemente più astratta e che definirei metafisica: non so da dove stia arrivando eppure è lì che mi percorre in modo sottile e insidioso. Non so darle un nome anche perché non ho paure di tipo religioso. Non avverto l’incombere profetico del millenarismo che annuncia la fine del mondo. Ma avverto la fine dell’umano, la morte dell’uomo, la nostra finitezza, ma non mi fa paura. Temo invece che essa cali su di me senza che io me ne renda conto».
Eppure, mai come in questi momento, la morte dei nostri simili ci interpella direttamente e ci sconvolge.
«La morte, come diceva Bataille, è il culmine dell’esperienza, ma nel momento in cui essa si compie viene anche perduta. Credo che il rapporto con la morte sia molto soggettivo. Per me, come ho detto, è il desiderio di essere presente e di sapere. Ma esiste anche la morte come orizzonte collettivo. La vediamo ogni giorno, forse impudicamente esibita. Vediamo o intravediamo soprattutto la morte di chi muore solo.
Questo mi pare un insopportabile estremo, come la tragica violenza di un corteo di bare che scorre anonimo sotto i nostri occhi. L’immagine o anche il racconto di queste morti in sé violente agisce su di me come una violenza irreparabile».
Se il pianto e il lutto appartengono all’umano, quanto questi sentimenti ci permetteranno di scoprire l’altro non come un nemico, un rivale, un’insidia?
«Quando riconosceremo negli altri il diritto al compianto che oggi viene spesso negato. Compianto per esempio per il profugo o per i morti anonimi.
Compianto non è pietà è qualcosa che implica una collettività, una società, una polis. È dunque una dimensione politica».
In questo momento com’è il tuo rapporto con la casa, gli oggetti, i libri?
«È un rapporto straniato. Anche perché abitualmente lavoro in uno studio che è altro rispetto alla mia abitazione. Mi manca il paesaggio della mia stanza di lavoro dove di solito sto per molte ore. La permanenza in casa rende strani gli oggetti quotidiani».
Vuoi dire che cambiano o sono cambiate le tue abitudini?
«No, vivo in modo molto simile a come vivevo prima di questa emergenza. Però mi manca la lettura dei giornali al bar, l’incontro con i nipotini, il mio studio e potermi muovere per vedere magari la mostra di Raffaello oppure incontrare un amico in un’altra città. Erano abitudini, appunto, ma credo che la vita si strutturi sulle abitudini. E l’ansia che pure monta nasce quando le abitudini sono lacerate».
Come pensi ne usciremo?
«Ci sarà un lento processo di ricostruzione delle nostre abitudini, vecchie e nuove».
La nostra mente è in grado di sopportare ciò che fino a un momento prima era inimmaginabile?
«Quanta verità può sopportare un cervello umano, si chiede Nietzsche in Ecce homo. È una domanda retorica e al tempo stesso drammatica perché l’unica risposta è "fino alla fine", fino a quando cioè saremo in grado di lottare. C’è un’altra frase di Nietzsche: "E se un giorno non riesci a sopportare la vita devi cercare di amarla"».