Robinson, 18 aprile 2020
Ma come è anarchico Dürrenmatt
Matthai, superpoliziotto, promette giustizia alla mamma di una bambina uccisa da un serial killer pedofilo. Studia il modus operandi dell’uomo, e comprende dove e quanto colpirà la prossima volta. Si apposta. Ma il serial killer non colpirà mai più. È stato invece il caso a colpire lui, vittima di un incidente stradale. Matthai, però, non può saperlo, e l’intera sua esistenza assume i contorni tragici del fallimento. Quando, infine, qualcuno gli dice come stanno le cose, è troppo tardi: «nonostante il freddo era seduto sulla panca con la sua solita tuta indosso, fumava un mozzicone, puzzava di assenzio». Con La promessa (1958), Friedrich Durrenmatt cambia per sempre la storia del romanzo poliziesco. Esiste un prima e un dopo questo magnifico, doloroso romanzo. Il prima è la triade classica delitto – investigazione – soluzione che ricompone il tessuto sociale squarciato dalla ferita del crimine. Il dopo può fare a meno della soluzione, non più necessaria e anzi, forse, impossibile. Come dice ne La promessa il vecchio saggio dottor H, «Da sempre voi scrittori la verità la date in pasto alle regole drammatiche. Mandate al diavolo una buona volta queste regole. Un fatto non può tornare come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi, per lo più secondari E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande ». Se, dunque, già con Hammett e la “scuola dei duri”, negli anni Trenta, lo schema classico del giallo d’ordine era andato in crisi, Durrenmatt spinge la frontiera del genere sino al limite estremo: la sua stessa negazione. Ha scritto Giuseppe Petronio che nel giallo del disordine, del quale Durrenmatt fu maestro, la soluzione è «impossibile, se non solo la logica del detective, ma anche quella del criminale è falsa, come falsa è ogni qualsiasi logica in un mondo che è tutto Zufall: caso, pasticcio, groviglio, guazzabuglio, imbroglio, o i tanti altri sinonimi con i quali Gadda battezza questo finimondo che è il mondo». Ma anche se il mondo è «un mostruoso enigma di disgrazie», all’essere umano è pur sempre concessa la libertà di battersi per la giusta causa. C’è consapevolezza di quanto vano possa essere lo sforzo, e della prevedibile sconfitta? Sì, certo. Non ci sono in Durrenmatt eroi senza macchia e senza paura, ma l’esito della lotta non è mai scontato. A volte, odio e meschinità si uniscono in un perverso gioco di reciproche convenienze. È il caso della Visita della vecchia signora, storia di una matura vedova che, diventata ricchissima, torna al natio borgo selvaggio e promette denari a cascata in cambio della testa ( in senso letterale) dell’uomo che l’aveva violentata; patto che la comunità, incluso il reo, accetta di buon grado. Altre volte la vendetta appare l’unica forma possibile di giustizia. Così il commissario Barlach, disgustato dalla corruzione e dalla miseria umana che lo circondano, si fa “giudice” e “boia” al contempo, visto che «l’ordine, quello che la borghesia concepiva e manteneva nel mondo, non era davvero ordine. I grandi criminali vanno per il mondo perché li si lascia andare e si mettono sotto chiave i responsabili di colpe minori. Senza rendersene conto, un noto uomo d’affari, concludendo abilmente una trattativa mentre centellinava il suo aperitivo prima di andare a tavola, poteva commettere un vero crimine di cui nessuno si accorgeva, e il bravo uomo d’affari meno di chiunque altro». In Durrenmatt, Ernest Mandel, il teorico marxista grande appassionato di gialli, leggeva il tratto tipico della rivolta anarcoide, che però non cambia i rapporti di forza nella società: «alla fine dei conti, le frontiere dell’ideologia borghese restano inviolate; si ritrovano qui gli stessi semplicistici postulati ideologici riassunti da Simenon nella formula “l’uomo non cambia”». Ingeneroso, a dir poco. Anche perché Durrenmatt, anche se politicamente impegnato, non fu mai marxista. Lo teneva lontano dalla dottrina il disprezzo per la dimensione esistenziale dell’individuo, la cui esplorazione era il suo faro. E vagheggiava un’unione fra marxisti e cristiani che rendesse i primi meno dogmatici e i secondi più rivoluzionari. Morto nel ’ 90 a settant’anni, Durrenmatt in vita fu accompagnato da un grande successo e da un notevole prestigio intellettuale. Nel ’ 64 fu candidato al premio Nobel, che ovviamente non vinse (forse perché si era macchiato della colpa di aver scritto tre romanzi gialli?). L’ambito riconoscimento, quell’anno, toccò a Jean Paul Sartre, che lo rifiutò, coerentemente con le proprie idee (ma poi si è venuto a sapere, grazie alla De Beauvoir, che anche il guru del Novecento francese era un divoratore di gialli, come Wittgenstein e tanti altri alti ingegni). Oggi Durrenmatt è un po’ dimenticato, ma il gusto brillante per il paradosso e la profonda leggerezza che caratterizzano i suoi scritti migliori, da Greco cerca Greca a Morte della Pizia, meriterebbero una riscoperta. E comunque possiamo sempre rinfrescarci la memoria rivedendo La più bella serata della mia vita, il gioiello che Ettore Scola realizzò nel ’ 72 da La panne, con Alberto Sordi nel ruolo del piccolo imprenditore corrotto che una stravagante compagnia di giuristi/ guitti condanna a morte dopo un processo tanto paradossale quanto esemplare. Con un finale che Scola e Amidei vollero più cattivo ancora dell’originale, sostituendo al pentimento della novella una morte casuale. Zufall, appunto.