la Repubblica, 18 aprile 2020
In morte di Sergio Fantoni
La scomparsa, nella serata di ieri, di Sergio Fantoni è una notizia che mai avrei voluto ricevere. Lo stimavo, gli volevo bene, ero legato a lui da una profonda gratitudine per aver diretto, quattordici anni fa, Ottavia Piccolo in quello che fu il mio battesimo da drammaturgo. Seguirono altre avventure teatrali insieme, e di ognuna conservo il ricordo di un uomo dal fascino antico, di carisma indiscutibile e formidabile tempra, sempre animato da una passione genuina per la scena, che gli faceva brillare gli occhi di un entusiasmo commovente, a stento celato per non tradire una fama di burbero ombroso. Figura di assoluto prestigio nella storia del teatro e del cinema, Sergio rappresentava ai miei occhi un testimone vivente di quell’Età degli Eroi che nel dopoguerra vide trionfare il miglior spirito d’iniziativa dei nostri artisti: ricordo un lungo pranzo estivo – io e lui fra i turisti di uno chalet sotto il Monte Bianco – durante il quale mi narrò con piglio avvincente come lui e Ronconi misero insieme la prima compagnia, mentre lo chiamava Luchino Visconti per Senso. Ascoltavo estasiato, come se mi stesse raccontando una chanson- de-geste, da cui non mancava l’approdo a Hollywood diretto da Blake Edwards, o al fianco di Paul Newman in Intrigo a Stoccolma. Era stato, da giovane, un uomo bellissimo, e di quella bellezza mantenne fino a tarda età un accento indelebile in quella nobiltà di portamento che ne era il tratto distintivo. Ma di grandioso, in Sergio, c’era la curiosità e il gusto della sfida con cui da regista si era votato alla drammaturgia contemporanea, italiana e straniera, per cui gli siamo debitori – nel suo lungo sodalizio con il fidato Fioravante Cozzaglio – per aver sperimentato linguaggi e alchimie tutto fuorché rassicuranti e consolatorie. Ci mancherai, Sergio. Ci mancherai molto.