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 2020  aprile 18 Sabato calendario

Pechino dice la verità?

La Cina dice la verità sul coronavirus? Ammettiamolo subito: per questa domanda, che sta spaccando il mondo in blocchi, non esistono risposte nette, un sì o un no. Molte verità sul nuovo patogeno sfuggono anche alla scienza. E poi c’è la natura del regime comunista, che vive di controllo delle informazioni. Tutto questo rende difficile stabilire fino a che punto le tante correzioni ai numeri annunciate in corsa da Pechino, come quella di ieri sui morti di Wuhan, siano frutto di errori fisiologici, e fino a che punto un insabbiamento. Capire se i ben documentati silenzi della Cina siano colposi oppure dolosi. Per di più, questi punti oscuri sono diventate armi nella sfida geopolitica tra il Dragone e gli Usa, una battaglia il cui obiettivo è imporre al mondo la propria narrazione e scaricare le responsabilità, mobilitando teorie scientifiche, ipotesi fantasiose o bufale sfacciate. Un conflitto in cui la propaganda rischia di oscurare i fatti, ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo.
I dubbi sui numeri cinesi
Ci si può fidare dei numeri cinesi? Ieri Pechino sembra aver dato un argomento in più ai sostenitori del “no”: le autorità hanno «rivisto» i dati sui decessi per Covid-19 a Wuhan, aggiungendone ben 1.290, il 50%. Attenzione. Che il bilancio della Cina fosse sottostimato lo si dice da tempo, ma in parte è una distorsione comune ad altri Paesi, Italia compresa. Dipende dal gran numero di casi asintomatici che sfuggono ai test e dal collasso degli ospedali nei focolai, da Wuhan a Bergamo. È credibile la spiegazione cinese: «All’inizio dell’epidemia il rapido aumento dei pazienti ha sommerso il sistema sanitario della città, rendendo la raccolta dei dati difficile». Tante persone sono morte senza poter entrare in ospedale o fare il tampone. Il motivo per cui ora Pechino ha deciso di rivedere i dati è tutto interno, di «responsabilità verso il popolo», cioè di stabilità. Tra i cittadini di Wuhan, appena liberata dalla quarantena, monta il malcontento per la gestione iniziale dell’epidemia, silenzi, ritardi e censure; la città martire rischia di diventare un bubbone di dissenso, da qui l’operazione “trasparenza”. Dunque i nuovi numeri sono veri? Probabilmente no, il fatto che la Cina abbia meno morti del Belgio giustifica i dubbi, per settimane ai funzionari locali è convenuto sminuire le cifre. Ma non è neppure detto che la realtà sia venti volte più grave, come ipotizzano proiezioni basate sul numero delle urne nei crematori di Wuhan o sostiene Trump. Ora la priorità della Cina è scongiurare la seconda ondata, ai funzionari il governo ha chiesto il massimo rigore nel riportare i casi, anche gli asintomatici a lungo esclusi dal conto. Un insabbiamento di massa non è nell’interesse del regime, il contenimento del virus è reale, altrimenti Xi Jinping non avrebbe riacceso il Paese. Le parole della Cina possono mentire, non le sue azioni.
L’ipotesi del laboratorio
Dagli Stati Uniti, in un rimpallo tra Casa Bianca e anonimi 007, rispunta l’ipotesi del “laboratorio di Wuhan”. Questa volta non nella versione complottista e iper smentita dell’arma batteriologica, bensì in quella più educata dell’incidente: uno scienziato infettatosi per errore. Vero, a Wuhan ci sono due centri in cui si maneggiano pipistrelli e virus letali. Vero, i diplomatici Usa ne hanno denunciato i problemi di sicurezza. Le prove però non esistono: nessuna notizia di incidenti, neppure ufficiosa. E fino a quando non si troveranno bisogna ritenere che Sars-Cov-2 sia non solo naturale, come dimostra il suo Dna, ma anche passato all’uomo “in natura”, come tanti altri patogeni prima. Le incognite sulle origini esistono, ma non giustificano spiegazioni alternative. Per esempio, non è stata ancora individuata la specie “ponte” tra pipistrello e uomo. Né è sicuro che il salto sia avvenuto nel mercato di Wuhan, visto che una parte dei primi contagiati non ci aveva messo piede. Su queste incognite fa leva la stessa Pechino, per provare a ribaltare sugli Usa il gioco delle colpe. La versione ufficiale dice che non ci sono prove certe che il contagio si sia originato in Cina, nonostante i virus più “antichi” identificati dai ricercatori provengano tutti dal territorio del Dragone. Ma la propaganda è andata oltre, sostenendo che il patogeno fosse stato portato a Wuhan da un soldato americano durante i Giochi mondiali militari dello scorso ottobre. Parecchi cinesi ci credono.
Informazioni e censure
La Cina ha comunicato per tempo e in modo trasparente le informazioni sul virus? Pechino sostiene di sì, suffragata dagli apprezzamenti dell’Oms: all’inizio di gennaio, dopo i primi casi di polmonite, i suoi scienziati hanno subito isolato il virus, condividendone il genoma. Negli stessi giorni però la politica aveva un’altra priorità, la solita: mantenere la stabilità. Varie testimonianze hanno mostrato che prima del 20 gennaio, giorno in cui Xi ha scatenato la guerra contro il virus, le autorità hanno nascosto o censurato informazioni rilevanti, per i cinesi e per il mondo. Ad alcuni laboratori che avevano identificato il patogeno è stato detto di distruggere le provette, a medici coraggiosi che avevano dato l’allarme di tacere; il rischio di contagio umano è stato escluso o sminuito, a Wuhan si tenevano banchetti pubblici e riunioni politiche. Difficile stabilire dove siano le responsabilità nella gerarchia comunista, il vertice le ha scaricate sui funzionari locali, epurati. Ancora più difficile capire quanto i silenzi abbiano influito sulla diffusione del virus. Si sa che prima dell’isolamento di Wuhan, 23 gennaio, 5 milioni di cittadini hanno lasciato la città. Ma in che momento le autorità avevano prove sufficienti per giustificare un blocco? I ritardi e le sottovalutazioni nel resto del mondo, quando il pericolo era noto, hanno mostrato quanto fosse difficile rispondere in tempo, e anche Paesi liberali hanno mandato messaggi ambigui ai cittadini. Sempre più governi ora chiedono alla Cina di fare chiarezza su quegli inizi, mentre Pechino rivendica le misure draconiane che hanno «guadagnato tempo al mondo». Le disfunzioni della Cina comunista non cancellano quelle dell’Occidente, e viceversa. Forse un giorno le si potrà tenere insieme, ragionare su risposte globali. Oggi pare difficile.