Tuttolibri, 18 aprile 2020
Intervista allo scrittore Ali Bécheur
Ali Bécheur è un uomo di altri tempi. E non solo perché è nato nel 1936, in una Sousse sotto protettorato francese dove Mussolini spediva gli italiani anti-fascisti. Bécheur, uno dei massimi scrittori arabi contemporanei, inquadra il mondo con una carrellata lenta alla Visconti e lo racconta con la pignoleria formale di un professore di latino, un intellettuale del primo Novecento o, meglio ancora, un neocon della cultura che resiste al presente ricordando. Il paradiso delle donne, romanzo di formazione e riflessione intima sul mestiere di scrivere, precede in realtà I domani di ieri, il suo libro più noto e premiato come l’altro con il prestigioso Comar d’Or, ma ne condivide l’impianto autobiografico.
C’è un uomo anziano, c’è la sua nuova fiamma, Luz, ci sono lui bambino e lei che lo segue nell’inferno e nel purgatorio della memoria fino alle alte sfere in cui si perdono il primo amore, l’incoscienza già adulta dei Ragazzi della via Pal, la morte del padre e della madre che spinge l’uomo in prima linea, il tramonto di un mondo da cui sorge la consapevolezza della vecchiaia. E c’è una scrittura forte, antica, a tratti ridondante, femmina nel genere e compiuta però nelle mani di chi, amandola, ne esorcizza anche il mistero.
Chi è Luz? Una donna immaginaria, una vera, l’alter ego dell’autore o il simbolo della scrittura, la più sensuale tra le muse del romanzo?
«È un po’ tutte loro. Luz è reale e immaginaria, due dimensioni diverse che si mescolano. Tutti nella vita cerchiamo la donna dei sogni e ci innamoriamo poi di quelle che le assomigliano di più, uno specchio nello specchio. M’interessa la frontiera tra reale e immaginario. La realtà per me è come un trampolino. Gli atleti salgono sul trampolino e si lanciano nelle loro evoluzioni, il trampolino è la base di partenza ma tutti gli occhi sono per le evoluzioni. Per la scrittura vale la stessa cosa, le evoluzioni sono la traduzione del mondo in parole».
"Il paradiso delle donne" è un libro molto bello, carico di parole. Come si sente a vivere in un’epoca di semplificazione linguistica, in cui le parole sono meno importanti della velocità con cui circolano?
«Non amo affatto quest’epoca. La mondializzazione per me è un lupo che divora gli agnelli, viviamo nella divinizzazione del denaro, tutto viene pesato per il valore economico che ha. Le parole sono l’antidoto a questa frenesia consumistica che ci divora. E intanto milioni di persone passano la vita a mandarsi SMS, cresce la semplificazione del linguaggio, si elogia l’indigenza nell’unico ambito in cui urge la ricchezza. Non fa per me, io credo che il libro sia un progetto estetico, non per forza riuscito ma in divenire. Invece viviamo la contraddizione di un mondo in cui la prosperità economica cresce in maniera direttamente proporzionale alla povertà culturale. Io mi oppongo, con le parole mi oppongo».
Che futuro vede per la scrittura?
«Spero che ci sarà sempre qualcuno che scriva. Alla fine l’uomo, attraverso i secoli, è sempre rimasto l’uomo, con le sue passioni, le emozioni, le paure. Lo stesso varrà per lo strumento che più di ogni altro fa sognare, viaggiare, conoscere il mondo, la Colombia di Marquez, l’Italia di Tabucchi. Penso a un verso bellissimo di Neruda, J’avoue que j’ai vécu, confesso che ho vissuto».
Che peso ha nelle memorie tunisine di Bécheur la religione, l’islam?
«Descrivo un Paese musulmano dove la maggior parte della gente è musulmana. Ma siamo come voi cristiani, tutti diversi: ci sono praticanti, poco praticanti, atei. La religione, per me, è una questione personale, io le rispetto tutte. Poi c’è l’islam che dalle crociate in poi è stato sempre considerato pericoloso. L’Europa dovrebbe provare a pensarci meno come islam e più come musulmani, persone».
La Tunisia di oggi è diversissima da quella della sua infanzia: è la rivoluzione del 2011, la fine di Ben Ali, la faticosa transizione verso la democrazia, la delusione dei più giovani che hanno ripreso a imbarcarsi per l’Europa. Ci legge una crisi culturale oltre che politica?
«La Tunisia in cui sono cresciuto non c’è più, la tengo viva con i miei libri. Oggi, dal punto di vista politico, non è un buon momento. Paghiamo 10 anni di cattiva gestione e abbiamo un enorme problema d’indigenza, oltre un milione di tunisini vive sotto la soglia di povertà. Ma siamo nel mezzo di una transizione democratica: non è facile crescere per un popolo tenuto sotto il giogo della colonizzazione e non solo francese. Nel 2011, per la prima volta, i tunisini hanno scelto liberamente. La gente ha accettato l’idea che a governare non sia chi s’impossessa del comando ma chi viene eletto e messo alla prova per 5 anni. È una rivoluzione culturale prima che politica. Sono ottimista, la protesta di 9 anni fa mi sorprese molto, ero a Parigi e vedendo un gruppo di connazionali che invocavano la cacciata di Ben Ali pensai che erano illusi. Avevo torto. C’è un libro di Etienne de La Boétie che consiglio a tutti, Discours de la servitude volontaire, il discorso sulla servitù volontaria».
Lei scrive in francese. Quello del rapporto di amore-odio con la lingua coloniale è un vecchio topos letterario. Lo vive in modo conflittuale?
«Affatto. La colonizzazione francese è finita, fa parte della nostra storia. Resta la lingua francese, e non la considero la lingua del colonizzatore bensì quella di Diderot, Voltaire, Baudelaire, Proust. Loro non ci hanno colonizzato e io amo il francese, l’ho scelto perché è una lingua bella. Mi sento ricco a poter parlare sia in arabo che in francese e non capisco l’elogio della povertà linguistica, perché limitarsi a una sola lingua?».
La scrittura si declina al femminile, ma, personalmente, la sento raccontata nel romanzo con un approccio molto maschile. Che peso ha la donna, centrale nel suo mondo immaginifico, in quello sociale e politico?
«Considero la donna il motore dell’umanità, in Tunisia le donne sono fondamentali. Parliamo della maternità, del futuro. Preferisco di gran lunga la compagnia femminile a quella maschile e sento che scrivere un romanzo è come vivere per due o tre anni con una donna. Mi rendo conto che il mio è uno sguardo da uomo, certo, ma da uomo che ama le donne».
Ha paura del Coronavirus, la nuova "Peste" di Camus?
«Non credo sia la peste né il colera. Comprendo le giuste misure a tutela della salute pubblica ma non facciamoci prendere dal panico: non si tratta del castigo di Dio come già blaterano molti. Usiamo la testa e relativizziamo la paura invece di farle da cassa di risonanza».