Tuttolibri, 18 aprile 2020
Intervista allo scrittore Michael Palin
Michael Palin è rinchiuso nella sua casa di Kentish Town, ai piedi della collina di Hampstead Heat, Londra Nord, il luogo con la maggiore concentrazione di scrittori e intellettuali di tutta la capitale. «Lei è a Milano, chiede allarmato?». L’italiano di Milano è un po’ come il cinese di Wuhan, nell’immaginario britannico. «Come è la situazione lì?» si informa. «No, sono a Londra», rispondo. Tira un sospiro di sollievo, anche se entrambi sappiamo che lo tsunami sta per abbattersi anche sull’isola.
«Io sto ben tappato, perché dicono che sono una categoria a rischio». Anagraficamente forse, visto che ha 76 anni. Ma a sfogliare la sua biografia, il personaggio sembra immortale. Ha vissuto le famose sette vite, come i gatti. Comico (è stato una delle colonne dei Monty Python). Attore (ve lo ricorderete in Un pesce di nome Wanda, La morte di Stalin e molti altri ruoli di british humour a livello eccelso). Era Ponzio Pilato in The life of Brian. Sceneggiatore. Presentatore. Viaggiatore. Autore di reportage. Scrittore.
Chiuso in casa. «Mi sembra di vivere nella fantascienza. Tempi davvero strani» commenta, più rivolto a sé stesso che a me. «Tempi incerti. Stiamo entrando in territori sconosciuti». Un po’ come l’Erebus, la nave della marina britannica di cui lei racconta l’epopea nel suo libro, che partì per cercare il Passaggio a Nord Ovest e non fece mai ritorno. Letta ora, quella storia, è un po’ una metafora di questi giorni. «Si, siamo come quella gente, che partì per l’Artico senza sapere a cosa stesse andando incontro. In fondo l’uomo è sempre lo stesso: un misto di coraggio, spavalderia, incoscienza e spirito di avventura. E tanta arroganza, anche. Lì fecero una brutta fine perché non erano preparati e non avevano idea di quali sarebbero state le difficoltà». Un po’ come adesso. Niente cambia. «Già» dice perplesso.
Delle varie cose che ha fatto nella vita, quale le è piaciuta di più?
«La risposta è semplice. Quasi niente l’ho fatto perché me l’ha detto qualcun altro. Ho sempre avuto il controllo, anche quando ero in gruppo, come con i Monty Python. Anche loro sono stati un’esperienza abbastanza straordinaria. Un gruppo di sei persone, di provenienza così diversa, che si mettono insieme e riescono per alcuni anni a cogliere uno spirito di humor collettivo».
Immagino non sia stato facile scrivere in gruppo testi per far ridere.
«Anche io mi stupisco. Non so come sia successo, ma so che eravamo dei tipetti difficili. Non ci facevamo mettere i piedi in testa dai funzionari della Bbc. Non gli abbiamo mai permesso di cambiare i nostri testi. Eravamo noi in controllo. E se devo essere sincero, la maggior parte delle cose che ho fatto, le ho fatto scardinando le regole».
In quale altra delle sue vite è stato un innovatore?
«Sono stato un esploratore, nel vero senso del termine. Per esempio, sono tra i primi ad aver girato reportage per raccontare come vive la gente nel mondo. Mi è sempre piaciuto esplorare nuove vie. Mi piacevano le storie degli esploratori, fin da bambino. Sono cresciuto a Sheffield. E per me viaggiare non era solo andare nei luoghi fisici, ma dove mi aveva portato l’immaginazione».
Nei suoi viaggi era più interessato ai luoghi o alle persone?
«Per me viaggiare senza incontrare persone è una perdita di tempo. Puoi attraversare magnifici deserti e rimanere a bocca aperta di fronte a incredibili bellezze naturali, ma quello è solo il lato spettacolare. Cosa mi interessa è l’interazione con l’uomo: come vivono lì? Cosa fanno? Mi affascina sapere come genti diverse vivono in luoghi diversi».
Lei ha studiato storia a Oxford. Come è diventato un comico?
«Proprio a Oxford, ma anche a Cambridge, in quel periodo, che erano gli anni Sessanta, c’era un sacco di gente che scriveva testi per fare un po’ di soldi. Lì ho incontrato Terry Jones (tra i fondatori dei Monty Python e suo sodale di comicità per tutta la vita, ndr). Gli inizi erano incerti, perché eravamo free lance e non sapevamo se avremmo avuto il prossimo lavoro».
Chi aveva le idee?
«Erano idee collettive. Eravamo tutti piuttosto in gamba, sia come attori che come scrittori».
L’idea del cavallo fatto con il lenzuolo e gli zoccoli di noci di cocco?
«Credo mia e di Terry. Era divertente. Ma per dirla tutta, era che non c’erano soldi. Dovevamo arrangiarci».
C’è chi ha le folgorazioni sotto la doccia. Altri quando camminano. Lei ha un momento o un luogo in cui le vengono le idee?
«Non uno in particolare. Non sotto la doccia. Quando scrivi cose comiche sei sempre sintonizzato su quella particolare lunghezza d’onda e raccogli materiale ovunque. Noti una situazione assurda, una battuta, qualcosa di buffo. E avere altre cinque persone sulla stessa tua lunghezza d’onda è un grande stimolo creativo».
Quando ha scritto la storia dell’Erebus invece era da solo davanti al computer?
«Non proprio. La fase di ricerca è durata 18 mesi e ho fatto molti viaggi, sia alle isole Falkland, che in Tasmania, che al Passaggio a Nord Ovest. E non mi sono mai sentito solo, perché altri avevano già fatto ricerche sul tema. Consigliavano archivi, fonti. Si è creata una comunità di persone molto generose, intorno a questo progetto».
È tornato al suo amore giovanile, la storia.
«In verità non l’ho mai abbandonata».
Lei racconta che Franklin e i suoi uomini quando rimasero intrappolati nel ghiaccio artico, si organizzarono per festeggiare il Capodanno, costruendo addirittura un pub sulla banchisa. È tragedia o commedia?
«La capacità di godere la vita di ogni giorno nei posti più insoliti e remoti del mondo è una caratteristica tipica degli inglesi. Per via dell’Impero così vasto, riproducevano ovunque la vita che conoscevano senza realmente connettersi coi luoghi e le persone, per cui rimanevano degli stranieri. In quel caso non bastava organizzare una festa e ballare, il pub era coreografia necessaria».
Tutto fu fatto in modo sbagliato ma romantico. Ci sarebbe salito, su quella nave?
«Sono abbastanza impulsivo. Credo di sì. Mi sarei fatto prendere dall’entusiasmo di tentare il Passaggio a Nord Ovest».
Lei che è un viaggiatore, come pensa che questo virus cambierà il nostro modo di vedere e vivere il mondo?
«Onestamente non lo so. Di certo le crociere non saranno più così popolari. Le mega navi distruggevano l’ambiente ma adesso sono pericolose anche per i passeggeri. Quanto ci vorrà perché qualcuno voglia salire ancora su un aereo? Sono sfide interessanti».
Non pensa che tutto tornerà esattamente come prima?
«Io sono ottimista. L’inquinamento è diminuito. Credo che la gente sia pronta a rivedere il nostro modo di vivere».
Nei suoi diari scrive di essere sempre stato uno che si preoccupa tantissimo. Possibile? A sentirla parlare sembra l’opposto.
«Beh, diciamo che sono un ottimista che si preoccupa. Perché voglio fare le cose al meglio e poiché ciò che faccio è piuttosto inconsueto e spesso senza precedenti, ogni volta mi preoccupo che le cose siano fatte secondo uno schema e non in maniera arbitraria».
Viaggia ancora molto?
«Meno. Non faccio più i lunghi viaggi del passato, per esempio a bordo dei mercantili. Adesso sono nonno e ho avuto anche un’operazione al cuore. Quindi non posso andare dove voglio, ma la curiosità è sempre lì. Certamente continuerò a viaggiare».
La sua giornata ideale come è?
«Mi piace andare a visitare musei e gallerie d’arte. Incontrare amici. Invecchiando, gli amici diventano sempre più importanti. Ho un altro documentario di viaggio in programma, ma ora è tutto bloccato. E un’idea di un nuovo libro, su cui sto lavoricchiando».
Quando è con gli amici, è sempre lei quello che fa le battute?
«No. Sono i miei nipoti adesso a farmi ridere. Loro sono molto più divertenti di me».