Corriere della Sera, 18 aprile 2020
Intervista a Paolo Rossi
Paolo Rossi, per tutti Pablito, tre gol al Brasile dentro il mitico Sarrià, due in semifinale alla Polonia, il primo nella finale con la Germania, in questi giorni di ritiro forzato ripensa mai ai momenti magici dell’82?
«Faccio di meglio, rivedo le partite, quasi tutte e sa una cosa?».
Prego.
«Mi emoziono ancora. Sono passati 38 anni ed è quasi come allora. Mi godo le immagini e i particolari che nella frenesia di allora mi erano sfuggiti. Ricordi dolcissimi di un’impresa straordinaria che ha segnato la mia vita».
Per molti il Mundial di Spagna è il Mondiale per eccellenza.
«Quando si vince si vince, però il modo in cui lo fai lascia il segno. La nostra è stata una storia perfetta, una specie di romanzo. Soli contro tutti. Un crescendo pazzesco. Prima l’Argentina, poi l’impresa memorabile con il Brasile. Abbiamo vinto meritatamente, battendo tutte le migliori».
L’Italia di Pablito.
«L’Italia dell’orgoglio nazionale, di Bearzot e del presidente Pertini. Ha vinto la nostra voglia di riemergere in un momento difficile del Paese».
Rossi è stato il mago dei gol d’estate. E d’estate il calcio, fermato dal virus, può tornare a vivere?
«I gol sono belli sempre, d’estate o d’inverno. È vero che gli italiani a luglio e agosto pensano al mare e al calcio mercato. Ma dopo questa lunga astinenza, quando ripartiremo ci sarà ancora più passione. Con un vero rammarico».
Quale?
«Le porte chiuse. Senza l’affetto della gente sarà un’altra cosa. Però non si può fare diversamente».
Si potrebbe aspettare.
«Chi è chiamato a decidere avrà riflettuto bene sul da farsi. Non bisogna rischiare niente, la salute viene prima di tutto. Però i campionati vanno finiti».
Il 4 maggio le squadre dovrebbero cominciare gli allenamenti: non è presto?
«Certezze non ce ne sono. Siamo in balìa del virus e in questo momento ogni previsione rischia di essere azzardata o, peggio ancora, sbagliata. Se il calcio riparte, significa che stiamo tornando alla vita vera. Soprattutto che i sacrifici della gente chiusa in casa hanno portato dei benefici».
Sarebbe un segnale di speranza?
«Sì, ma non bisogna fraintendere. Ci dovremo adeguare a una nuova normalità. In attesa del vaccino niente sarà come prima. Mascherine, guanti, lunghe code davanti ai negozi come nella Russia degli anni 80. E stadi a porte chiuse. Sono tristi, però è l’unica soluzione».
E il campionato come se lo aspetta?
«Non azzardo pronostici. Tre mesi o quasi senza partite potrebbero cambiare le gerarchie. Non i valori, che restano. Ma tanti fattori potrebbero incidere e condizionare la ripresa».
Per esempio?
«Banalmente la nuova preparazione. Oppure l’adattamento a giocare nel silenzio: qualche squadra riuscirà a trovare la concentrazione giusta, qualche altra farà più fatica».
Non c’è troppa fretta di ripartire?
«Spesso e volentieri è un problema di soldi. Sono nel consiglio del Vicenza, che ha una società solida e ambiziosa, ma in questo momento senza entrate di nessun genere ci siamo resi conto di quanto sia difficile tirare avanti. La A, alla fine, credo possa ripartite. La C farà molta più fatica».
È preoccupato per il futuro del calcio?
«Sono preoccupato per il destino di molti club delle serie minori. E non dimenticatevi che non ci sono solo i giocatori ma anche semplici dipendenti come in un’azienda qualunque. Il governo dovrà fare la sua parte».
Nell’82, prima del Mondiale, era rientrato in campo solo alla fine della stagione per via della lunga squalifica. Adesso i giocatori ripartono dopo quasi 90 giorni.
«Non sarà facile. Di solito, sfruttando l’energia mentale, si comincia alla grande. Poi si va in difficoltà. A me è successo nella prima fase del Mondiale e devo ringraziare Bearzot che mi ha confermato sempre la sua fiducia. L’inizio sarà duro per tutti: bisogna ritrovare le misure».
Che ne pensa dei tagli sugli stipendi?
«È una condizione necessaria. Sarebbe servito un accordo collettivo e invece noto che ogni club va per la sua strada. Certo, è difficile mettere insieme realtà così diverse. Bisognerebbe trovare un punto di equilibrio».
Mancini ha detto che tra un anno l’Italia sarà più forte e giocherà l’Europeo per vincerlo.
«Intanto faccio i complimenti a Roberto perché ha ridato colore all’azzurro e creato un bel clima. L’Italia è bella e divertente. La mia sensazione, seguendo la Nazionale da commentatore, è che il gruppo fosse pronto già adesso. Non vorrei si spezzasse quel filo magico che ci aveva permesso di vincere 11 partite di fila».
Il problema è sempre lo stesso: il centravanti. Alla Nazionale di Mancini manca un Pablito?
«Per adesso si va avanti con il ballottaggio tra Immobile e Belotti che offrono sufficienti garanzie e si completano a vicenda».
Dietro di loro, considerando l’eclissi di Balotelli, c’è poco.
«Confesso che dopo averlo visto all’opera mi sarei aspettato di più da Kean. Invece in Inghilterra si è spento, è come sparito dai radar. Speravo fosse l’uomo nuovo. Magari nei prossimi mesi tornerà fuori».