Corriere della Sera, 18 aprile 2020
La quarantena dei disabili
«Oggi Edo si è svegliato felice. Ha riso tutta la mattina. Abbiamo fatto il bagno, le fotografie, abbiamo ballucchiato un po’, abbiamo fatto dei disegni», scrive su Facebook Arianna, spiegando come non possa lasciare un solo istante il fratello autistico per non ritrovarsi la casa a fuoco o allagata, «approfittiamo delle uscite con il cane per camminare un po’, perché la totale interruzione di ogni attività per lui è una prova davvero difficile. Stavamo passeggiando lungo corso Traiano quando, alla fine della strada, una signora ferma al semaforo, abbassa il finestrino della sua auto e urla, testualmente: “Siete la rovina dell’Italia, dovete stare a casa invece di andate in giro mano nella mano teste di cazzo!”».
Chissà se quella signora torinese si è resa conto della schifezza che le era scappata di bocca. Certo è che Edoardo in quel momento rappresentava tutte le centinaia di migliaia di disabili che in queste settimane sono i più colpiti dalla quarantena. Vale per chi è inchiodato a una carrozzina speciale e non è in grado neppure di soffiarsi il naso come i fratelli Alessio e Gianluca Pellegrino o Giovanni Cupidi di Palermo, più che mai prigionieri dell’aiuto altrui. Vale per i padri e le madri di ragazzi Down come Isabella Piersanti, insegnante e autrice del libro Da piccola ero Down, che racconta come la figlia Giulia apprezzi la possibilità di stare sempre insieme in famiglia ma «è un animale in gabbia, come tutti gli adolescenti della sua età, ma con maggiori difficoltà a utilizzare i dispositivi informatici» fino a sentirsi ancora più isolata. Per non dire, racconta Anna Contardi, alla guida dell’Associazione Italiana Persone Down, del trauma della mancanza di ogni contatto fisico: «Ci siamo inventati di tutto: dai corsi di cucina a quelli di teatro online ma il contatto fisico, la possibilità di toccare un altro, di stringerlo, per un trisomico è molto più importante che per altri». Vallo a spiegare, a un ragazzo Down, che deve mantenere la distanza di un metro e 80 centimetri da chi vorrebbe abbracciare...
Sono forse gli autistici, però, a patire di più la rottura con le abitudini quotidiane. Avete presente Rain man? Dustin Hoffman si impunta sulle mutande: «Queste non sono le mie mutande, assolutamente non ho addosso le mie mutande». «Queste non sono le mie mutande». «Questi non sono i miei boxer. Io compro i miei boxer da K-Mart a Cincinnati». Un sito Web ne parla come di «una delle scene più divertenti»: no, è tra le più angoscianti. Immaginate dunque, per un ragazzo colpito dall’autismo, cosa significhi restare inchiodato in casa. Non poter uscire. Non poter sentirsi sicuro dentro le sue abitudini. I suoi riti. I suoi orari. Una tragedia nella tragedia della strage di vecchi e disabili spazzati via.
«Forse avremo un’idea dell’ecatombe, quando tutto questo sarà finito», ha scritto nel blog «pernoiautistici» Gabriella La Rovere, autrice del libro Mi dispiace, suo figlio è autistico, dopo la «scoperta» che nell’Istituto Bassano Cremonesini di Pontevico, Bassa bresciana, si erano contati 22 morti e decine di contagi. Certo, ammetteva, «in questi giorni abbiamo nascosto la testa sotto la sabbia, impegnati nella gestione straordinaria di nostro figlio che ha dovuto superare lo sconforto di dover restare chiuso in casa, di non vedere più le figure educative di riferimento, gli amici, di non potere fare tutte quelle attività che definivano la giornata». Ma cosa è successo davvero ai disabili ricoverati?
«Al tempo del coronavirus, le imperfezioni del sistema dei sostegni a coloro che hanno Bisogni Speciali possono essere maggiori ed evidenziate dall’epidemia. Una famiglia è isolata. Questo non è una novità: poteva accadere anche prima dell’epidemia. Un figlio o una figlia con disabilità che si ammala, resta a casa, ed è totalmente a carico dei famigliari. Col coronavirus questo è più evidente, e avviene nell’incertezza della durata», sostiene Andrea Canevaro, uno dei massimi studiosi italiani di disabilità. Certo, dice, ci sono esempi di comunità che portano avanti progetti di integrazione anche in queste settimane così difficili. Come la Fattoria Sociale Conca d’Oro di Bassano del Grappa. O il Progetto Sud di Vibo Valentia, dove proprio ieri il sindaco Maria Limardo (una donna: solo un caso?) ha ordinato di aprire un parco «alle persone affette da disturbo dello spettro autistico».
Intorno, però, c’è troppo silenzio. Basti leggere i titoli dell’Ansa negli ultimi due mesi con la parola coronavirus: 40.361. Dei quali con le parole disabili o disabilità solo 49: 1 ogni 823. In larghissima parte dedicati agli anziani non autosufficienti. Ai nonni. Molto meno ai figli e ai nipoti. Diciamoci la verità: vale anche per i giornali. Nonostante lo sforzo enorme di tantissime famiglie, volontari, associazioni non profit che mai si sono sentiti così soli. Vale per il «Chicco Cotto», l’impresa sociale messa su da Don Andrea Bonsignori, del Cottolengo, che ha affidato a un gruppo di ragazzi disabili il compito di rifornire di patatine, biscotti, bibite tanti distributori automatici torinesi. O per il «Tortellante», il «laboratorio, scuola di autonomia, luogo di riposo, centro di socializzazione» di Modena che, sotto la presidenza di Erika Coppelli, riunisce le famiglie di giovani autistici i quali, con la guida di un po’ di nonne e dello chef Massimo Bottura, 3 stelle Michelin e un cuore grande così, hanno imparato a fare tortellini buonissimi. Che hanno aiutato i ragazzi a essere un po’ più autonomi, convinti di se stessi, ricchi di autostima. Tutto bloccato, oggi. O quasi. Eppure, spiega Bottura, «una delle cose che ci ha regalato questo virus è il tempo che, tolto tutto, puoi dedicare alla tua famiglia, alla lettura, alla quotidianità. Charlie, mio figlio, ha vissuto questa situazione con qualche difficoltà iniziale. Ai ragazzini diversamente abili devi spiegare esattamente quello che devono fare. Non puoi fargli la “sorpresa”. Rovesciare le sue abitudini. Poi, quando gli hai costruito intorno un’abitudine, puoi metterci dentro anche qualcosa di diverso. Charlie, ad esempio, ha un punto a suo favore: deve prendersi cura di Moch. Il nostro cagnone. È bravissimo». Ed è lui, Charlie, il protagonista di #kitchenquarantine, il collegamento su Instagram con cui la famiglia condivide con centinaia di migliaia di amici, la sera, alcuni momenti della giornata. Condividere per vivere. Ma lo Stato? Sospira: «Eh, lo Stato. Qui a Modena possiamo dire di vivere l’aiuto, la vicinanza, i servizi di una macchina pubblica che funziona. Lo Stato però potrebbe fare davvero molto, ma molto di più».