Corriere della Sera, 18 aprile 2020
In morte di Giuseppe Guarino
Aveva un modo di fare in grado di spiazzare tutti, quell’ironia e quegli occhi veloci e scintillanti che mostravano tutta la curiosità degli uomini di un tempo. Per tutta la vita il professor Giuseppe Guarino — morto ieri a 97 anni — ha studiato regole, norme, codici, Costituzioni, a cominciare dalla nostra. Ma la sua voglia di capire non si è mai fermata. Le sue riflessioni finali sull’Europa, sui limiti dei codici e regolamenti che in qualche modo l’hanno privata della sua spinta iniziale, sono lì a dimostrare quanto il suo punto di vista, originale, sia stato prezioso per questo Paese.
Caporal maggiore in zona di operazioni nel ’43, primo classificato all’esame di procuratore legale nel ’44. Il diritto è stata la sua vita professionale e il suo impegno civile, lui che aveva studiato al liceo Antonio Genovesi di Napoli. Al fianco di Guido Carli, un rapporto molto stretto con Carlo Azeglio Ciampi. È stato sindaco della Banca d’Italia fino al 1987, quando lasciò perché nel frattempo era stato chiamato a ricoprire l’incarico dei ministro delle Finanze nel governo Fanfani.
Una vita vissuta per il diritto e poi la curiosità di comprendere i meccanismi dell’economia. Dal suo saggio sull’eurosistema alle sue considerazioni sul debito pubblico, altri contributi decisivi per comprendere il tempo presente. Sempre con un punto di vista non scontato, non prevedibile. E perciò talvolta più difficile da portare avanti. Eppure lui insisteva per le sue idee. Come le considerazioni sul regolamento 1466 del ’97, che secondo lui, aveva travalicato le regole di quella che una volta era la Comunità Europea, la sovranità degli Stati. Non c’è pezzo dello Stato che nella storia recente non abbia fatto ricorso a lui per un consiglio, un parere, una soluzione. Una volta l’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone, chiamato a decidere su una domanda di grazia di un detenuto che era stato da lui difeso come avvocato, gli chiese se era legittimo che fosse lui a decidere oppure in conflitto d’interesse. La sua risposta segna lo stile dell’uomo: il Presidente, la più alta carica dello Stato, quando ricopre quella magistratura è indipendente, anche dal suo passato, altrimenti i cittadini non potrebbero fidarsi di lui.
Nato a Napoli il 15 novembre del 1922, ha cominciato a insegnare all’Università di Sassari nel 1948, poi docente di diritto costituzionale a Siena, Napoli, a Roma. L’aula magna della Sapienza è piena quando nel 1999 vengono presentati gli studi in suo onore, c’è il presidente della Repubblica. I suoi allievi e colleghi, da Pietro Rescigno a Paolo Tesauro. Tra i suoi primi allievi ci sono stati anche Francesco Cossiga e Giorgio Napolitano.
All’inizio della sua carriera venne mandato negli Stati Uniti e in Messico a studiare l’industria petrolifera e incrociò la Montedison di Eugenio Cefis. Deputato nel 1988 e responsabile dell’Ufficio Affari Europei della Democrazia Cristiana nel 1989, promotore della Fondazione Lorenzo Valla. Come tutti gli uomini curiosi, faceva fatica a stare nel recinto della conoscenza ad una sola dimensione. Corrispondente dell’Accademia dei Lincei. E poi nel 1992, forse uno degli anni più difficili per la Repubblica Italiana, fu ministro dell’Industria e ad interim delle Partecipazioni Statali. Raccontava come, in un decreto scritto di suo pugno, Eni ed Enel vennero trasformate in società per azioni, il passaggio decisivo che ne avviò la privatizzazione, una svolta storica per l’economia pubblica italiana. Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, con il quale non mancarono confronti molto accesi. La sua idea era quella di creare delle super holding per creare un sistema industriale più forte, e non condannare l’Italia ad avere pochi gruppi di grandi dimensioni. Le privatizzazioni, diceva, devono servire a creare un sistema più forte. Il riferimento era alla lezione di Alberto Beneduce, rivisitata per i tempi attuali. Suggeriva di fondere Eni ed Enel. E più tardi di creare una holding a cui conferire i beni dello Stato per cedere i titoli ed abbattere cosi il debito pubblico. Una volta chiese all’ufficio studi della Banca d’Italia di fare i conti sulla spesa per interessi e quando scopri che è pari a circa il 5% del Prodotto interno lordo, continuava a ripetere: ma come possiamo crescere con un fardello così pesante? Intuì che la riforma dell’articolo V con l’illusione federalista avrebbe creato molte complicazioni, che stiamo vivendo anche in questi giorni, tra lo Stato centrale e le Regioni. C’era un saggio a cui era particolarmente legato L’uomo-istituzione. Forse un modo autobiografico di raccontarsi. Con la sua ironia.