Robinson, 18 aprile 2020
Ritratto di Bassani
Se vi viene in mente all’istante Il giardino dei Finzi- Contini, fate finta che non sia così. C’è sempre il rischio, quando un’opera diventa popolare in modo sproporzionato rispetto alle altre, che le metta in ombra. Così, per Giorgio Bassani, morto vent’anni fa, il 13 aprile del 2000, quella di autore del Giardino dei Finzi-Contini si è trasformata in un’etichetta quasi controproducente. Un po’ perché al romanzo del ’62, diventato film Premio Oscar per la regia di Vittorio De Sica, è legata la polemica proverbiale e ormai stantia con il Gruppo 63 (i neoavanguardisti gli rimproveravano staticità stilistica e sentimentalismo); un po’ perché cercare altre porte d’accesso può essere sorprendente. E se una di queste fosse la poesia? Bassani teneva ai suoi versi, che ne sovvertono l’immagine composta e” classica” ( lo mostra bene uno studio recente a cura di Valerio Cappozzo, Dal particolare all’universale. I libri di poesia di Giorgio Bassani, Pozzi editore). Direste mai che è appunto «l’autore del Giardino dei Finzi- Contini» a scrivere il seguente distico? «Ben volentieri te lo darei / mio caro un calcio nel / culo // Ma ti farebbe / poi / male?». Naturalmente, si riferiva a un suo critico. E se dei critici di Bassani resta ben poco, di Bassani resta, per esempio, un piccolo capolavoro meno noto come Dietro la porta ( 1964). Un racconto lungo – la misura in cui Bassani dà il suo meglio – sull’amicizia fra un ragazzo della Ferrara benestante, alter ego del narratore, e un ultimo della classe, Pulga. Il narratore lega a sé Pulga per insicurezza, e Pulga lo blandisce nel corso di quelle «splendide merende» delle cinque del pomeriggio. Quando, in una giornata di grande neve, l’amico tarda, il narratore viene preso da un’ansia eccessiva – ed è una pagina bellissima, con questa neve che continua a cadere, «ma adesso più rada, ridotta a una specie di pulviscolo danzante senza più peso attorno alle luci giallastre dei lampioni». L’ambiguità dell’amicizia, le ombre del rapporto si riveleranno in un finale spiazzante: quando, nascosto «dietro la porta», il narratore ascolterà cosa Pulga pensa davvero di lui. Resta il malessere dell’escluso, restano la frustrazione e il senso di colpa: la ferita di una irriducibile diversità, una «ferita sanguinante in segreto», perciò «indicibile», come la definisce Roberto Cotroneo, curatore del” Meridiano”; e a questi stati d’animo sembrano spesso inchiodati i personaggi delle sue storie. Il dottor Fadigati degli Occhiali d’oro, il farmacista Barilari di Una notte del ’43, lo stesso narratore del Giardino dei Finzi-Contini, che non riesce a dichiararsi alla ragazza Micòl di cui è innamorato: tutte vite segnate – dentro le mura di quella Ferrara che Bassani ricostruisce, con perizia toponomastica, non come un fondale ma come una ragione di vita – dagli eventi di quel segmento di storia nazionale fra le leggi razziali e la fine della guerra. Su cui Bassani, ebreo ferrarese, torna ossessivamente: interrogando il passato non come un faldone d’archivio, ma come qualcosa di vivo, che non solo «non muore mai» (così scrive in una pagina di L’odore del fieno), ma si muove, si agita, ci assedia. In qualche modo, muta, e mutando ci parla. Non a caso, alle battute finali del famoso Giardino, si avverte «attraverso l’aria notturna un suono flebile, accorato, quasi umano». La voce dell’orologio di piazza, il rintocco delle ore e dei quarti. Sta dicendo qualcosa. Ma cosa? Lo scrittore, perciò, non è mai quieto, non è mai pacificato. E benché naturalissima appaia la sua pagina – con quell’italiano morbido e accademico insieme – era invece il frutto di ostinati rifacimenti. «Fin dal principio ho sempre incontrato la massima difficoltà, non dico a realizzare, nel senso cezanniano del termine, ma semplicemente a scrivere. No, purtroppo, il famoso” dono” io non l’ho mai posseduto», confessava Bassani, severissimo con sé e con gli altri. Sapeva scatenare, nel giovane autore che gli si rivolgeva, «dubbi, insoddisfazioni, sensi di colpa.” Che cosa ho sbagliato?” ti chiedevi dopo un incontro con lui, senza saperti dare una risposta. Avevi usato pigramente l’indicativo là dove, con un piccolo sforzo in più, ti saresti dovuto allontanare dalla lingua parlata addentrandoti nella foresta insidiosa dei congiuntivi? Era la virgola che, collocata a senso, denunciava clamorosamente la tua imperizia?». Così Antonio Debenedetti, che lo frequentò fin dagli anni Cinquanta, ha ricordato una volta il magistero di Bassani – un” rabbi” poco indulgente e implacabilmente ironico, «di quell’ironia ebraica che ti risveglia con il ricordo delle sue staffilate anche nel cuore della notte». Ma il Bassani” editor” ( lavorò per riviste culturali gloriose e per Feltrinelli; promosse Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, lanciò Il dottor Zivago), era anche più duro con sé stesso. Soffriva sulle parole, la annotava su ciò che aveva a portata di mano: poteva essere il foglio di una lettera appena ricevuta o il biglietto del cinema, insisteva sulla punteggiatura, riscriveva, cercava strade diverse. Ne trova una in un romanzo come L’airone, un viaggio funebre in vita, un lento, estenuato congedo dal mondo, una programmata dimenticanza di sé. E dimentico di sé Bassani lo sarà davvero, negli ultimi, dolorosi anni della sua esistenza: privato della memoria, cui aveva destinato tutte le sue energie di scrittore; espropriato del misterioso spazio- tempo di cui si era fatto custode, interprete, inventore.