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 2020  aprile 16 Giovedì calendario

Breve storia delle donne nel ciclismo

Alle prime Olimpiadi moderne, Atene 1896, le donne erano ancora un oggetto misterioso nella galassia sport, anche se negli Stati Uniti, un’eroina della lotta per i diritti civili , Susan Brownell Anthony, sosteneva che «andare in bicicletta era stata l’attività che aveva contribuito all’emancipazione della donna più di qualsiasi altra cosa al mondo». Non viaggiava sulla stessa pista ciclabile ideale gran parte dell’universo maschile, a cominciare dall’uomo olimpico per antonomasia, il conte Pierre de Frèdy De Coubertin, il quale fosse stato per lui non avrebbe mai concesso il pass alle donne ai Giochi di Amsterdam 1928, e poco prima di tirare le cuoia, nel 1937, il barone francese confermava l’esclusiva dello “sport gentleman”: «Il solo vero eroe olimpico, l’ho sempre detto, è l’individuo maschio adulto». A questa vetusta misoginia ora pone fine il bel saggio, documentatissimo, di Antonella Stelitano
Donne in bicicletta (Ediciclo. Pagine 494. Euro 20 ,00) che ripercorre tutte le tappe storiche dell’evoluzione del ciclismo rosa. Un gran tour, anzi una sfida secolare per tutte le donne del mondo, iniziata con la “svestizione”: via di dosso il pesante stoffaggio dei gonnelloni plurimi e soprattutto l’ingombrante busto («un vero e proprio strumento di tortura, il busto a stecche di balena», scrive in prefazione Angela Teja della Siss, Società italiana di storia dello sport) che impediva al gentil sesso di salire agevolmente e pedalare in sella ai primi rudimentali velocipedi. Alleggerite di così tanti orpelli, le bellezze in bicicletta erano pronte a conquistare la pubblicistica stradale della Bella Epoque. Parigi tappezzata di manifesti di avvenenti dame al pedale, mentre Maria Ward nel suo The Common Sense of Bicycling. Bicycling for Ladies parlava dell’indipendenza della donna, il cui metro di misura è dato «dalla sua capacità di riparare i guasti del mezzo da sola». A queste accelerazioni, da noi alla vigilia della Grande Guerra risponde la brusca frenata dell’Almanacco del- la donna (1914) in cui si leggeva: «Il ciclismo per la donna non può essere che accolto nella forma turistica e anche in questo caso non converrà passare limiti molto modesti e soprattutto non lanciarsi mai in prove di lunga resistenza». Parole che suonarono come una provocazione alle orecchie della “pioniera”
del ciclismo agonistico, l’audace Alfonsina Morini, «maritata in Strada » che di fare la cicloturista non ne voleva proprio sapere. Tutt’altro che una bellezza in bicicletta la virago Alfonsina, nata nel 1891 (terza di 9 figli) tra le nebbie della campagna di Riolo di Castelfranco Emilia era capace fin da bambina di riparare il mezzo e di pedalare più forte della ragazzaglia locale. La prima vittoria le fruttò in premio un maiale vivo che fece la gioia del padre, il quale non avrebbe mai assecondato la sua passione per il ciclismo se non l’avesse chiesta in sposa l’artigiano Luigi Strada che, per regalo di matrimonio, le regalò una bicicletta nuova fiammante. L’altro dono, sentendo tanto parlare delle sue imprese nelle «corse con i maschi», glie lo fece il direttore della “Gazzetta dello Sport”, Emilio Colombo, il quale fiutò l’affare propagandistico: Alfonsina, la prima donna iscritta al Giro d’Italia del 1924. Forò tutti e due i copertoni, cadde, fango negli occhi e sangue alle ginocchia, ma Alfonsia non si arrese, e nonostante l’ingiusta squa-lifica, fu tra i 30 temerari corridori (partirono in 90) che riuscirono a coprire tutti i 3.600 chilometri di quel Giro memorabile vinto da Giuseppe Enrici. Mezzo secolo dopo, la sua degna erede sarà Maria Canins che inizia a correre nel 1975. Donna delle nevi, l’ex fondista dell’Alta Badia smessi gli sci sale in bici e diventa la “Mamma volante”. Contro tutto e tutti, anagrafe compresa, tra i 35 e i 40 anni, lotta e vince: due Tour de France e conquista l’oro mondiale nella crono a squadre. Fabiana Luperini è l’azzurra che ha vinto di più in carriera, ma se Alfonsina è stata l’apripista, Maria Canins rimane il simbolo di un movimento che, tagliando un traguardo dietro l’altro, ha trovato finalmente la sua strada.