Corriere della Sera, 15 aprile 2020
Memoria senza miti, parlano i partigiani
In occasione dei settantacinque anni dalla Liberazione, Gad Lerner e Laura Gnocchi hanno avuto l’idea di intervistare gli ultimi combattenti ancora in vita (tutti più che novantenni) per trarne un documentario e un libro, Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, che Feltrinelli manderà in libreria alla viglia del prossimo 25 aprile. Le loro testimonianze, garantisce nella prefazione al volume la presidente nazionale dell’Anpi, Carla Nespolo, saranno presto disponibili, integralmente, nell’archivio multimediale dell’associazione.
I ricordi sono assai vivi. Pochi di quelli che si sono lasciati intervistare cedono alla tentazione dell’enfasi. Nessuno appare pentito di quella lontana militanza, neanche coloro a cui, nel dopoguerra, la partecipazione alla lotta armata antifascista causò non pochi problemi. Gran parte dei combattenti per la libertà, anzi, si mostra delusa per il parziale disconoscimento dei valori in nome dei quali a suo tempo aveva impugnato le armi. Sono testimonianze di pregio. Tutte. Ma, per qualche dettaglio in più, meritano una menzione particolare quelle di Lidia Menapace, Vinicio Silva, Carlo Smuraglia, Gastone Cottino, Dino Zanobetti, Mirella Aloisio, Iole Mancini e Bruno Segre.
Colpisce poi la franchezza con la quale molti degli intervistati rievocano in questo libro le cosiddette «pagine oscure della Resistenza». Si tratta di «macchie, errori riconosciuti e motivati dall’atrocità delle violenze subite e dalla natura spietata di quella guerra», scrivono Gad Lerner e Laura Gnocchi, «che vengono ricordate con una sofferenza accresciuta dalla campagna ideologica che le ha enfatizzate sproporzionatamente».
Un caso per tutti: quello di Germano Nicolini, detto il «comandante Diavolo». Nel 1997 gli è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare. Purtroppo, puntualizza «Diavolo», questo è avvenuto «più di mezzo secolo dopo i fatti di cui sono stato protagonista». Cinquant’anni, aggiunge, in cui «me ne hanno fatto passare di tutti i colori». Perché? Il 18 giugno 1946 davanti alla parrocchia di San Martino a Correggio (paese emiliano di cui all’epoca il «comandante» era sindaco) fu ucciso a colpi di pistola il parroco, don Umberto Pessina. Il vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche, «sollecitò i carabinieri», secondo Nicolini, «a costruire delle false testimonianze» e lo fece condannare. Il Partito comunista gli propose di fuggire in Cecoslovacchia, ma lui si sentì «ferito nell’onore» e rifiutò. Trascorse dieci anni in cella. Molto tempo dopo, nel 1994, fu riconosciuto innocente e Francesco Cossiga, a nome dello Stato italiano, gli fece «una telefonata di scuse».
Poi, nel ’97, la medaglia.
Otello Palmieri da partigiano prese come nome «Battagliero». Aveva combattuto sui colli dell’Appennino emiliano. Dopo la guerra iniziò a fare il muratore. «Speravo che venisse la rivoluzione, quella vera e, se fosse venuta, io non mi sarei tirato indietro». Gli sembrò che l’ora fosse scoccata il 14 luglio del 1948, giorno dell’attentato a Palmiro Togliatti. Ci «incontrammo di notte tra partigiani comunisti … avevamo conservato mitra e altre armi»; «lo so, ufficialmente le armi le avevamo consegnate in piazza Maggiore, il giorno della sfilata della Liberazione, ma erano solo le più scadenti»; quelle buone le avevano nascoste in una balera. Dopodiché si appostarono dietro le finestre delle case «pronti a far fuoco contro i carabinieri che, si era sparsa la voce, stavano per arrivare a prenderci». Ma Togliatti, ripresi i sensi, diede ordine di accantonare quelle intenzioni. «Non eravamo proprio convinti di quella decisione, ma obbedimmo».
Nel frattempo Palmieri fu coinvolto nell’uccisione del titolare «fascista» di un’osteria, Augusto Mignani, (che però, finita la guerra, «non si vantava più come prima», tant’è che nel suo locale andavano a comprare le sigarette e a mangiare anche ex partigiani). Palmieri fu accusato dell’assassinio: c’erano state delle testimonianze contro di lui, «ma», dice, «era tutta gente pagata». Lui, a differenza di Nicolini, fuggì in Cecoslovacchia («un Paese socialista» che però «si rivelò una grande illusione»… il comunismo «da quelle parti era estremamente odiato»). Nel 1953 venne prosciolto dalle accuse. Tornò in Italia per poco, per lavorare dovette subito emigrare in Svizzera. Nonostante tutto, afferma, «non mi sono mai vergognato di essere stato comunista».
Di Togliatti parla anche Ermenegildo Bugni, nome di battaglia «Arno», tra i protagonisti della Repubblica partigiana di Montefiorino. Racconta Bugni che, appena finita la guerra, «tra noi iniziarono a circolare i sospetti di sporchi giochi politici sopra la nostra testa». Divisioni ideologiche «si erano già affacciate al nostro interno fra chi aspirava a una rivoluzione socialista e chi, abbattuto il fascismo, voleva ripristinare un sistema capitalistico». Fu in quel momento che si cominciò a parlare di «Resistenza tradita». A lui, iscritto al Pci, giunsero «da parte dei dirigenti» accuse di «settarismo». Fu assunto come operaio, licenziato proprio perché considerato una «testa calda». Cercò di arrangiarsi come venditore ambulante. Nel 1952, il segretario del Pci volle conoscerlo. Togliatti, ricorda, «mostrò garbo e acutezza facendomi ragionare»: bisognava «darsi una calmata», gli disse; «usare più il cervello e meno la pancia se volevamo rendere operante in tutti i suoi valori la Costituzione uscita dalla Resistenza». «Compresi la sua insistenza perché agissimo nell’ambito della legalità e ripresi il mio posto di militante nel partito».
Un riferimento all’amnistia di Togliatti del 22 giugno 1946 lo fa anche Mario Fiorentini (il quale si autodefinisce «pacifista che più pacifista di me non ce ne sono»), uno dei protagonisti dell’azione militare di via Rasella, che provocò oltre trenta morti e una settantina di feriti. L’amnistia «fu fatta, credetemi, prima di tutto a tutela dei partigiani, non per salvare i fascisti». Nonostante le critiche successive, Fiorentini si dice ancora oggi «convinto che fosse necessaria».
Qualcuno rievoca altre discussioni interne al mondo della Resistenza. È il caso di Guido Ravenna, combattente nella Brigata Osoppo con il nome di Furio. Dell’episodio di Porzûs (diciassette della brigata uccisi da partigiani comunisti) «allora non seppi nulla». Ma ricorda che ci furono «parecchi problemi» allorché (febbraio del 1945) nelle terre del confine orientale il Pci decise di far confluire la Brigata Garibaldi nell’esercito di liberazione jugoslavo. Altri problemi quelli della Osoppo li ebbero quando catturavano altoatesini che si dichiaravano italiani, non tedeschi. I compagni di Ravenna ovviamente non disponevano di prigioni e qualcuno di questi prigionieri lo lasciarono scappare. Poi qualche fuggiasco trovò l’occasione di ricambiare il favore.
Particolarmente toccante è la densa testimonianza di Sergio Dallatana, nome assunto nella Resistenza «Mario». Per lui fu decisivo quel che capitò al comandante Juan («che solo anni dopo ho scoperto si chiamava Gianni Di Mattei»). Il comandante Juan disobbedì a un ordine della Brigata Garibaldi e fece compiere ai suoi un’azione che costò la vita a sette partigiani. Fu convocato con un pretesto, «sottoposto a un processo sommario e giustiziato». A premere il grilletto fu «un certo Tom che, qualche settimana dopo, si scoprì essere un infiltrato nazista». Dallatana ha memoria di aver reagito «furibondo» al cospetto di quel «processo stalinista». Mantenne in ogni caso il suo impegno nella lotta armata per la Liberazione. Nei cinquant’anni successivi al 1945, ricorda adesso, «sono andato a lavorare all’estero e ho messo da parte il partigiano Mario… ero ancora troppo arrabbiato». Oggi, però, avverte il bisogno di tornare su quei fatti e «di spiegare cosa ha significato la Resistenza».
Valentino Bortoloso, nato a Schio (Vicenza) nel 1923, figlio di un operaio della Lanerossi, fu partigiano e, appena finita la guerra, prese parte all’eccidio nel carcere della sua città. Già da alcuni anni ha definito «inutile e dolorosa» la strage di ex fascisti da lui compiuta – insieme ad altri undici suoi compagni – nell’estate del 1945. Il suo nome di battaglia era «Teppa» (ispirato, racconta, da un film sulla malavita francese).
Appena finì la guerra, gli inglesi avevano rinchiuso gli ex fascisti di Schio nella prigione locale. Poi, però, cominciarono a liberarli con il pretesto che il carcere era sovraffollato. A fine giugno tornò in città William Perdicchi, reduce dal campo di concentramento di Mauthausen, unico sopravvissuto tra quattordici deportati: pesava trentotto chili. Fu per l’emozione suscitata da questo ritorno, rievoca Bortoloso, che lui e i suoi compagni decisero di compiere l’incursione nella prigione di Schio, prima che il governatore britannico mettesse in libertà altri «fascistoni», «forse già arruolati nel controspionaggio». Entrarono in carcere, dove «fecero» cinquantaquattro morti e trentuno feriti.
Oggi ritiene che «siamo stati gli allocchi che hanno abboccato all’amo». Altrimenti «perché erano stati tolti i carabinieri e nessuno, neppure gli inglesi, ha agito quando fu chiaro che entro pochi giorni il carcere sarebbe stato assaltato»? Nelle ore successive, uno di loro, Renzo Franceschini («che aveva l’abitudine di bere») si vantò pubblicamente dell’impresa. Alcuni scapparono in Jugoslavia. Lui no. Gli fu fatale il numero 6. Fu arrestato il 6 agosto 1945, un mese dopo la strage del 6 luglio, e processato dopo altri trentun giorni, il 6 settembre. Racconta di essere stato anche torturato. Fu condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo e, dopo dieci anni, uscì per un’amnistia. Mai venne meno la solidarietà dei comunisti locali. Quando fu portato in prigione a Padova – gli è rimasto impresso nella memoria – per strada «ci buttavano i fiori dalle case, battevano le mani». Poi venne la stagione del rimorso. Qualche anno fa, su iniziativa del vescovo di Vicenza, Beniamino Pizziol, ha incontrato Anna Vescovi, figlia del commissario prefettizio ucciso quella notte a Schio e assieme hanno firmato una «lettera di riconciliazione e perdono».
Aldo Tortorella (nome di battaglia «Alessio»), che nel Pci era destinato ad avere un ruolo di primissimo piano, ricorda che dopo la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948 «il sentimento nei confronti dei partigiani mutò». Molti di loro furono mandati a processo. Tortorella cita il caso Moranino. Argante Bocchio inserisce la vicenda Moranino, il comandante «Gemisto» accusato di aver fatto uccidere altri combattenti per la libertà, nel quadro di «una vera e propria persecuzione politica antipartigiana». Moranino era deputato del Pci e nei suoi confronti il Parlamento concesse per la prima volta l’autorizzazione all’arresto. Bocchio (con Silvio Bertona) fu processato assieme a lui e fuggirono in Cecoslovacchia. Il tribunale assolse Bocchio e Bertona, ma condannò Moranino.
Tortorella propone un’inedita comparazione tra il destino di Oscar Luigi Scalfaro e quello di Francesco Moranino, combattente comunista («o meglio democratico avanzato», precisa Tortorella) condannato per aver fatto uccidere cinque partigiani, di cui si è detto, e poi, nel 1965, graziato dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. La storia di Moranino è per Tortorella paragonabile a quella di Scalfaro, il quale, avendo presieduto un processo partigiano (al termine del quale fu comminata la pena di morte) «l’ha scampata per un pelo in quanto magistrato». Quanto al mito dell’Urss, è interessante il ricordo di Tortorella di una frase pronunciata dal suo compagno di università Quinto Bonazzola: «Guarda che noi non sappiamo ancora se il difetto è “nel” sistema sovietico o “del” sistema sovietico». Parole che, racconta, «mi hanno aiutato a maturare una coscienza disciplinata ma critica». Molti di questi ultimi partigiani ancora in vita intervistati da Lerner e Gnocchi, appaiono – a leggere tra le righe i loro ricordi – più coraggiosi di gran parte degli storici che hanno affrontato i nodi irrisolti di quell’esperienza.