Corriere della Sera, 15 aprile 2020
Quarantene di oggi, quarantene di ieri
All’Asinara «le fosse erano scavate nel vivo sasso, col mezzo delle mine. Quivi erasi saputo da tempo che quattro vapori con un 7000 persone a bordo, e che avevano delle malattie infettive, sarebbero venuti a fare quarantena; e forse per questo eransi preparate 6 fosse e colla profondità di metri 3 circa nelle quali venivano buttati cadaveri»... Finché non fossero state appunto riempite fino all’orlo e ricoperte. Per poi eventualmente scavarne delle altre. Anche i nostri nonni migranti, come scrisse all’epoca uno dei passeggeri, Cesare Malavasi, ne L’odissea del piroscafo Remo, ovvero il disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile, vissero storie di quarantena simili a quelle vissute in questi giorni dagli africani raccolti in mare dalla «Alan Kurdi». I loro supplizi, anzi, furono spesso più crudeli. Basti ricordare la sorte dei passeggeri dei bastimenti che, respinti dai porti brasiliani, uruguagi o argentini perché a bordo c’era qualche epidemia, come ricostruisce la storica Augusta Molinari ne Le navi di Lazzaro, furono costretti a rifare appunto il percorso inverso e tornare dalla Merica in Italia, per una interminabile quarantena finale. Spesso appunto all’Asinara. Scelta dalle autorità italiane, spiega la storica Eugenia Tognotti, dopo «una violentissima protesta» della gente di La Spezia e di Napoli contro il governo, invitato a stare alla larga dalla Liguria e dalla città partenopea per optare piuttosto su «un’isola lontana dal Continente» da destinare alle segregazioni sanitarie. Lo sbarco nell’arcipelago davanti a Stintino fu traumatico: «I poveri quarantenari», scrisse Malavasi, «dovettero soffrire immensamente, sia per la disagievolezza che per l’eccessivo freddo. Spirò durante la notte un vento frigidissimo il quale, penetrando, sì per gli steccati d’entrata che per i pertugi semicircolari che funzionano da finestre, non permise a quegli infelici il menomo riposo. I trapuntini erano scarsi, e i primi entrati essendosene impossessati, gli ultimi rimasero privi, costretti a coricarsi sull’arena del mare». Per non dire dell’infamia degli armatori che, indifferenti alla morte di 96 poveretti uccisi dalla scelta folle di proseguire la traversata anche dopo (dopo!) la scoperta del colera a bordo, chiesero ai sopravvissuti, minacciando di far loro pagare viaggio e quarantena, di firmare una lettera in cui «assolvevano» i padroni della nave da ogni responsabilità. Certo che ne avevano, come gli scafisti di oggi, di pelo sullo stomaco.