il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2020
Le regole di Bce e Basilea strozzano il nuovo credito
Le piccole e medie imprese segnalano un nuovo problema legato agli aiuti finanziari per le aziende colpite dalla recessione innescata dalla pandemia di coronavirus Covid-19. Le modalità di finanziamento e le regole di controllo del credito, invece di innescare il meccanismo richiesto dagli imprenditori e voluto dal governo con il decreto liquidità della scorsa settimana che eroga 400 miliardi di crediti garantiti dallo Stato, potrebbero paradossalmente innescare una nuova fase di credit crunch, la riduzione dell’offerta di credito complessiva. Il fenomeno è in corso in Italia dall’esplosione della crisi dell’euro del 2011 e l’epidemia potrebbe farlo peggiorare.
Secondo le statistiche di Banca Italia e Abi, a febbraio del 2012 gli impieghi al settore privato viaggiavano intorno ai 1.680 miliardi di euro, dei quali 1.500 miliardi circa alle famiglie e alle imprese non finanziarie. Il valore era in linea con quello dell’estate 2008, prima del crac di Lehman Brothers e della grande crisi globale innescata dai mutui subprime Usa. Secondo gli ultimi dati di febbraio scorso, prima dell’esplosione della crisi per l’epidemia, i prestiti bancari ai privati in Italia erano scesi a poco più di 1.400 miliardi, con un calo di oltre 275 miliardi, pari a un sesto del valore 2012. Il rubinetto del credito è stato chiuso in modo deciso tra il 2012 e il 2013, poi il flusso si è mantenuto pressoché stabile sino a metà del 2017 per poi stringersi di sino a oggi.
In realtà gli andamenti sono diversi per fasce di aziende. Per le grandi e grandissime imprese ogni caso fa storia a sé. Ma prima della crisi le medie società sotto i 500 dipendenti, specialmente al nord, erano mediamente molto liquide per via del credito facile a tassi ridottissimi offerto dalle banche grazie alle politiche della Bce mirate a sostenere l’economia reale. In alcuni casi, per ogni euro ricevuto dalle banche queste aziende negli stessi istituti di credito ne avevano in giacenza tre.
Ora invece il rischio sono i modelli interni di rating delle banche, cioè quegli algoritmi voluti dalle regole di supervisione di Basilea che assegnano uno “stato di salute” alle imprese che chiedono credito e lo rivedono una volta al mese. In condizioni normali, l’algoritmo del rating è come un radar che cerca di intercettare segni di eventi finanziari negativi. Tra questi innanzitutto i bilanci, pubblicati una volta l’anno e che sino al 2021 non registreranno il crollo dei fatturati dovuto alla pandemia. Poi le cifre raccolte dalla Centrale dei rischi, la banca dati gestita da Banca d’Italia che raccoglie le informazioni sui debiti. Dalla centrale, gli algoritmi traggono indicatori quali variazioni del numero di banche o società di leasing e factoring che erogano crediti alla stessa impresa, richieste di prima informazione, quando un cliente bussa agli sportelli in cerca di denaro (se sono troppe il cliente è in difficoltà), ma anche linee accordate, utilizzate, sconfinamenti. Infine ci sono gli indicatori interni alla banca su affidamenti, conti correnti, fidi, il rispetto delle rate e quant’altro. Una volta al mese l’algoritmo estrae dai dati i rating delle imprese, buoni o cattivi. Se le aziende chiederanno prestiti garantiti dallo Stato, a fronte di fatturati fermi al 2018 o al 2019, gli algoritmi bancari segneranno peggioramenti dei rating aziendali. Se i peggioramenti dei rating delle aziende delle banche saranno molti, si deteriorerà anche il rating medio del portafoglio creditizio delle banche stesse, crescerà il rischio di default di quel portafoglio e, in base alle regole di supervisione volute dalla vigilanza Bce, scatterà in automatico un maggior assorbimento di patrimonio per la banca. In assenza di interventi delle autorità di vigilanza si rischia così che le banche non eroghino credito, magari perché i dipendenti che le deliberano verranno “istruiti” a non concedere il via libera alle pratiche, oppure che le banche facciano erogare linee di credito garantite dallo Stato per sostituire i propri prestiti precedenti, specialmente per le aziende più problematiche, in modo da ridurre le proprie esposizioni.
Il tutto rischia di pesare soprattutto sulle micro e le piccole e medie imprese. Le medie aziende, gonfie di liquidità, potrebbero invece avvantaggiarsi della crisi e nei prossimi mesi potrebbero fare ottimi affari comprando fornitori a prezzi stracciati, magari in sede di concordato o fallimento. Insomma il cerino dei crediti più a rischio può passare dalle banche alle mani dello Stato, che in base al decreto liquidità è fornitore di garanzie di ultima istanza
La Vigilanza bancaria della Bce e Bankitalia hanno evidenziato i rischi di credit crunch a fine marzo decidendo “un trattamento prudenziale più flessibile dei prestiti garantiti da misure pubbliche”. Ora però servono norme di dettaglio sulle metriche dei rischi di credito dai regolatori del settore e dagli organismi di vigilanza, perché la crisi delle Pmi e le tensioni finanziarie potrebbero far collassare questo tessuto di aziende fondamentale per l’economia italiana. C’è poi l’ultimo nodo, quello dei tempi e delle pastoie burocratiche per ricevere le garanzie pubbliche per le piccole e medie imprese. Tra personale bancario al lumicino e trafila burocratica si rischia di sforare ampiamente gli 80 giorni di media previsti per ottenere i fondi. Il denaro, insomma, anche se arrivasse potrebbe comparire troppo tardi.