la Repubblica, 14 aprile 2020
Così Mura cominciò a fare Cattivi Pensieri
Il sabato mattina svuotava le tasche del giaccone, e venivano fuori pezzi di giornale. Grazie a quelli Gianni Mura ha scritto i suoi “Sette giorni di cattivi pensieri” per 36 anni. Prima di strapparli, guardava sempre cosa ci fosse dall’altra parte della pagina: poi li metteva tutti sulla scrivania. Una rubrica endecasillabo, la più longeva del giornalismo italiano, finita su un paio di tesi di laurea, spazio intoccabile anche nei voti (3 a Scalfari, 4 ad Agnelli), e pazienza per chi ci rimaneva male. Poteva far ridere, piangere, o accendere l’ira di qualche padrone del vapore, soprattutto nel calcio (da Berlusconi in giù) e nel ciclismo (squadra Sky e dintorni). Poteva attaccare la concorrenza così: «Ho voglia di passare da via Solferino con un camion di cachi maturi» e mantenere un certo fair play. Criticare il benaltrismo, il qualcunismo, l’altrovismo, prima che diventassero una scienza politica.
«A lui farebbe piacere se la racconto così: Gianni Mura era come il maiale, non si buttava via niente». In quei giorni d’autunno dopo le Olimpiadi di Los Angeles ’84, Mario Sconcerti era seduto al sesto piano della redazione di Piazza Indipendenza a Roma, un open space. Accanto a lui, in piedi, Gianni Mura. «Fra vent’anni sarai famoso per questo: dobbiamo lanciare una rubrica in cui tu dai i voti a tutti, anche al Papa» racconta ora l’editorialista del Corriere. «Certo non pensavo mi prendesse in parola».
E io presi subito da Sconcerti (la fortuna di avere grandi maestri) una strigliata solenne: avevo cambiato l’occhiello e scritto “Pagelle per una settimana agitata”, invece di “Sette giorni di cattivi pensieri”. Da allora (e ti chiediamo scusa, Gianni) la rubrica è stata impaginata in mille modi: firmata, siglata, di spalla, di fogliettone, di tasca, con il capolettera e senza, con il titolo incassato nel testo o a due colonne. Con titoli a una riga (“Giornali maiali”, “Cronache di poveri avanti”) o due (“Salvate la lingua dai giornalisti robot”). Di nero, tondo o corsivo. È capitato che finisse sotto la cronaca di un rally.»Mi sento un po’ sballottato, ormai c’è l’impaginazione al potere» sorrideva. Era il grado massimo della sua protesta, anche con gli altri colleghi che hanno poi hanno guidato lo sport di Repubblica : Fabrizio Bocca, Gianni Cerasuolo, Aligi Pontani, Angelo Carotenuto e Francesco Saverio Intorcia. Fanno oltre 1300 rubriche, si usciva nelle giornate di campionato, obbligatorio chiamarlo in tarda mattinata: Gianni, di che scrivi oggi?
Rileggere oggi i SGCP moltiplica i rimpianti. Lui parlava di antisemitismo negli stadi quando le curve erano celebrate, affrontava a testa bassa il pensiero dominante («vergognosa e disumana la Roma del tifo contro Maradona»), lui dedicava due colonne su un giornale a piccole storie finite in una breve: l’allenatore che muore d’infarto in panchina, quello che ritira la squadra dopo un coro razzista. Fatti di 20-30 anni fa, così tragicamente uguali. Per poi trovar modo di parlar d’altro, con frasi che cito a memoria: «La cucina belga e quella olandese si possono riassumere in un telegramma». «Conosco cantine dove si brinda a ogni crollo del Nasdaq».
Incursioni oggi inimmaginabili, la critica a un editorialista di Repubblica come Baget Bozzo: «Posso dire che non ho capito il suo pezzo? Quindi è 4». Il bello è che tutti incassavano. Gianni Petrucci, detto il dott. Petrucci – ex presidente Coni oggi al basket – un po’ ne soffriva, un po’ rideva. Non so come abbia reagito Galli della Loggia quando Mura scrisse: «Il suo pezzo mi ha depresso e annoiato». Se lo poteva permettere: fu attaccato spesso sul piano personale (ubriacone, maestrino), raramente sui contenuti. Fu un critico severo della tv che aveva messo le mani sullo sport, e rifiutò il premio “Brera” organizzato dal Processo del Lunedì.
Tutto questo viveva nella sua rubrica che si scioglieva «come gelato al limon» il giorno della cattura di Totò Riina e che poteva prendere sentieri mai tracciati per parlare di Silvia Baraldini e curdi, colesterolo e Bonolis, di Po e poesia. Quest’anno ne sceglieva sempre una per chiudere (l’ultima è di Abelardo Delgado). Da qualche parte c’è un suo libro di poesie giovanili. Lo aveva portato a Brera, che lo bocciò dicendo: «Meglio lo sport, Giannino: ma un verso vero lo hai scritto: Per la verde ferita dei tuoi occhi ». Un endecasillabo anche quello.