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 2020  aprile 12 Domenica calendario

Un Tartuffo al cuore, Molière ci parla

Nonostante il suo cognome e che sia stato direttore del Teatro di Strasburgo, Stéphane Braunschweig non è alsaziano, è un parigino a tutti gli effetti: al punto d’essere ora direttore dell’Odéon. Tra i suoi meriti, di avere consentito che si mettessero in rete, in qualunque ora del giorno, di questi giorni, tre suoi spettacoli dedicati a Molière.
Con l’eccezione dei teatri Mercadante ed Eliseo, è il contrario di quanto accade in Italia, dove i più generosi offrono piccole e brevi performance o spettacoli del repertorio a una certa ora e in un certo giorno: in questa scelta si avvertono due risoluzioni, una di mancanza di fiducia nel proprio lavoro; l’altra di esibizione ideologica, per non dire di volontà polemica: no, il teatro si deve vedere in platea, nel contatto fisico tra attore e spettatore. Non è un pensiero originale, è un pensiero ovvio, facile da proporre. Certo, il teatro è quella cosa lì, è ogni sera l’evento, è il contatto. Chi potrebbe negarlo? Ma, allora, perché filmare i propri spettacoli (tutti lo fanno, da quando è possibile); perché non consegnare i propri spettacoli alla storia comune e non solo agli archivi di casa?

Mai come adesso ve ne sarebbe l’opportunità, il beneficio, la felicità.
Dico la felicità perché, nonostante di Braunschweig qualcosa conoscessimo in Italia (per esempio un suo Mercante di Venezia), si trattava di conoscenza episodica e casuale, non sapevamo che grande, asciutto regista fosse. Asciutto, cioè francese: per lui il realismo è diverso da quello inglese, puntiglioso fino, a volte, alla sazietà. Grande nel modo migliore, senza apparire d’esserlo, senza che nei suoi tre Molière, del 2003, del 2008, del 2018, vi sia alcun segno vistoso al punto di poter dire: eccolo, è lui, è Braunschweig. Invece, vedendo i suoi L’École des femmes, Le Misanthrope e Tartuffe, posso pensare di aver capito Molière, posso infine dichiarare di amare Molière, di amarlo più di ogni altro, che sono pazzo di lui.
Sto esagerando? Vi prego di guardare, poi discuteremo. C’è un tratto compositivo dominante, ricorrente: qui il grande scrittore del Seicento non è antico e non è contemporaneo. Vi si vede con chiarezza come ciò che racconta non appartenga a un tempo piuttosto che a un altro. Le sue storie sono storie di sempre, sono ciò che sempre accade tra noi uomini.
L’École des femmes è la commedia che rivoluzionò il teatro in Francia. Vi dominava Corneille. Di colpo fu cancellato. Molière aveva fallito nei suoi esperimenti con la tragedia ma prima di sposarsi a quarant’anni (con Armande, la sorella o la figlia naturale, da lei stessa proposta, della sua ex amante e attrice di punta Madeleine Béjart).
Scrisse L’École des maris e, subito dopo, L’École des femmes. Tra lui e la moglie c’era una notevole differenza di età. Così riassume la faccenda il suo illustre biografo Ramon Fernández: «Quello che prova Leonora nella Scuola dei mariti è un sentimento filiale. Il caso di Agnese è più sottile e più scoraggiante. Può amare Arnolfo come un padre ma non riesce ad accettarlo come sposo, e disgrazia vuole che Arnolfo faccia istintivamente ricorso all’autorità paterna mentre vorrebbe imporsi come marito». Era forse, almeno un poco, il sentimento dell’autore nei confronti della sua giovane moglie. Era, in ogni caso, la metamorfosi di una possibile «tragedia» in una reale «commedia».
Nella versione di Braunschweig (lo spettacolo più stilizzato dei tre) il punto è fermo. Egli non si spinge nell’aperta derisione e quindi comicità, come nella recente e peraltro felicissima versione di Arturo Cirillo, né torna indietro fino allo strazio del perduto amore di un vecchio: è la versione di Cristina Pezzoli (Sergio Fantoni protagonista), quasi Arnolfo fosse un personaggio di Nabokov o di Kawabata. O come in quella di Jacques Lasalle, nella quale il protagonista più che un vecchio è un uomo che appartiene al passato, è un prepotente; mentre l’innocenza di Agnese non è mai un in sé, è sempre in divenire. O, ancora, come nell’interpretazione di Valter Malosti: il comico e il drammatico vi erano indistinguibili, e l’anziano protagonista era proprio colui che non seppe essere padre. Il punto fermo di Braunschweig è in quel dondolio, in quell’autentico autismo di Arnolfo. Fa tutto da solo, parla sempre lui, è sempre in scena, si illude e si disillude procacciando a sé stesso il guaio di non essere amato – posto ve ne fosse una larvata possibilità.
Nel Misanthrope colpiscono la verosimiglianza e la plausibilità del comportamento di personaggi che si potevano ritenere antiquati. Per tutto il tempo della mia vita di spettatore ho creduto che Alcesti fosse di Celimene un corteggiatore. Invece ne è semplicemente l’amante, uno dei più d’uno amanti di lei. Ad apertura di sipario, lui esce dal letto della ragazza ed è tanto una sorpresa (rispetto alle abitudini) quanto il riconoscimento della nostra illimitata ingenuità.
Dunque, non vi è questione di duello tra un moralista e uomini di mondo, come quando Carlo Cecchi mise in scena Il Misantropo. Né vi è la sofferenza di Umberto Orsini che nella versione di Patrice Guinand diventa insofferenza, e quasi isteria. Né infine vi sono la misantropia come sublimazione della gelosia (così era nello spettacolo di Massimo Castri) o il puro humour nero, la qualità quasi atrabiliare, la natura rigida del protagonista come nell’Aroldo Tieri di Luigi Squarzina; o la pura soluzione di stile: icasticità, velocità, nitidezza come nei bei tempi in cui Toni Servillo era più regista che il pur eccellente attore che è. In Braunschweig non vi sono troppi dubbi, Alcesti non è tanto un’anima bella, animato da sæva indignatio, quanto un uomo che ama, ferito nell’orgoglio, e che a tale ferita reagisce.

Il brutale ricattatore Tartuffe di Braunschweig (il suo magnifico interprete è lo stesso degli altri due spettacoli, Claude Duparfait) accompagna, senza darlo a vedere, le Provinciali di Pascal, nella lotta contro il giansenismo, nello smascheramento di un’emozione religiosa spinta agli estremi.
In un Tartuffo di Roberto Guicciardini non vi erano che idioti, tutti idioti o colpevoli, nessun’altra possibilità. Nella versione di Franco Branciaroli (sto citando quel che ricordo) spiccava il vero devoto, Orgone, uno stupido entusiasta: Orgone sembrava amare più Tartuffo che la figlia. E nell’idea, ancora di Servillo (ne era interprete quel Peppino Mazzotta che abbiamo domenica scorsa ricordato per ’Nzularchia di Mimmo Borrelli), il protagonista della commedia, quel falso devoto, era un individuo quasi preilluminista, un po’ arido invece che asciutto come ci appare nel Tartuffe di Braunschweig, così impeccabile da aver ridotto il suo innamorato Orgone tanto accecato dalla sua fiducia, anzi fede in lui, proprio in Tartuffe, quanto è sempre possibile, di fronte alla cecità, insegnare a vedere, o meglio a capire.
Ecco, insomma, la grandezza di Molière: non solo nel rovesciare i vigenti canoni estetici del suo tempo (l’ho appena accennato citando Corneille) ma anche nell’offrire, e questo l’ho accennato ricordando Pascal, un contributo all’evoluzione della storia culturale e quindi a un radicale mutamento dei costumi e dello stesso stile di vita.
E, dovessimo tirare le somme del complessivo senso del lavoro di Braunschweig su Molière – se il problema del drammaturgo, smascherando tutti gli uomini potenti che gli erano intorno, era quello di arrivare al cuore del re, di Luigi XIV – qual è il problema del regista, deliberato o meno deliberato che sia stato? Esso appare quello di svelare la somiglianza, discendenza, e quasi consanguineità di tre personaggi a prima vista così diversi tra loro. Non è forse Arnolfo un «Tartuffo» verso sé stesso? Non è in regime di falsa coscienza? Non è un ipocrita prima del vero Tartuffe? E non è Alcesti, quali che siano le sfumature che gli si vogliano attribuire, un uomo più che dominatore di sé stesso, di sé stesso in balìa, sbattuto di qua e di là non solo da chi si innamora, o crede di innamorarsi, ma da tutti quelli che gli sono intorno?