La Lettura, 12 aprile 2020
Conversazione tra Luigi Zoja e Serge Latouche
Sarà dura. Ne usciremo frustrati, arrabbiati, sicuramente più poveri. Spezzati da un nemico invisibile, affaticati dall’isolamento, pieni di debiti. Ma ogni crisi porta con sé stimoli nuovi, occasioni di riflessione e forse di cambiamento. Sul piano personale: «Vedremo tra nove mesi», dice lo psicoanalista Luigi Zoja. Sul piano sociale ed economico: «La pandemia ci ha fatto capire la fragilità del nostro sistema». Parola di Serge Latouche, il teorico della decrescita.
Partiamo dall’esperienza del singolo. È vero che l’isolamento mette in crisi i rapporti umani, facendo esplodere i conflitti familiari?
LUIGI ZOJA — Si insiste molto su questo aspetto, ma gli episodi di violenza domestica sono occasionali. Io semmai vedo un approfondimento del rapporto tra genitori e figli e tra le coppie. Ci sono coniugi che non hanno mai tempo di stare insieme. E allora questa è l’occasione per farlo, magari vedremo finalmente qualche carrozzina in giro. Insomma, nella fascia di popolazione che non è patologica non credo che l’isolamento faccia così male.
Cambierà il nostro modo di vivere?
SERGE LATOUCHE — All’inizio pensavo di sì, visto che stiamo attraversando una decrescita forzata: si vede dall’aria pulita, dalla nascita di alcune forme di solidarietà. D’altra parte temo che a emergenza finita sarà tutto come prima: business as usual, come dopo la crisi del 2008. Poi ci ho ripensato e ho detto che no, i cambiamenti arriveranno: anche i governi più liberisti hanno rinunciato alle loro politiche, vedo un ritorno dello Stato. Ci si è resi conto della nostra dipendenza da altri Paesi, si può pensare alla rilocalizzazione di alcune attività. Siamo però lontani dal progetto della decrescita. C’è invece un aspetto che non tornerà come prima: con la pandemia assistiamo alla «virtualizzazione» del mercato. Le librerie, per esempio, avranno molte difficoltà a riprendere, perché i lettori faranno gli ordini online. Il sacrificio del reale andrà a profitto del virtuale.
È un evento senza precedenti.
LUIGI ZOJA — Non so cosa succederà, ma farei attenzione: anche se durerà molto più di quello che vorremmo, non avrà una durata sufficiente per alterare i nostri comportamenti. Perfino dopo le guerre si è tornati alle abitudini di prima. Dopo l’11 settembre – a New York, dove abitavo – dicevano «il mondo non sarà più lo stesso» e invece il modello americano è cambiato pochissimo.
SERGE LATOUCHE — Abbiamo a che fare con le pandemie fin dal Neolitico. La cosa nuova, mai vista, è il confinamento di tre miliardi di persone. La socialità non era mai stata sacrificata a tal punto. Abbiamo accettato l’isolamento, siamo tornati a Hobbes, dobbiamo rinunciare a libertà e diritti per la sopravvivenza, il Leviatano ci garantisce solo una cosa, la vita, la vita senza qualità. È chiaro nel discorso del presidente Macron, «la vita a tutti i costi», anche sacrificando, fino a un certo punto, l’economia.
È d’accordo?
SERGE LATOUCHE — Per niente. Ma così ha voluto l’opinione pubblica, arrivando anche a spostare le politiche di Trump e Johnson: questo è straordinario.
Dunque ci siamo isolati volontariamente?
LUIGI ZOJA — C’è una cosa da dire: noi abitanti di città viviamo continuamente violentati nel nostro istinto del territorio. Pensate al trasporto pubblico: la maggior parte delle persone vive in uno stato innaturale di compressione, gomito a gomito con troppa altra gente. Di colpo, ora, ci ritroviamo in una «situazione di famiglia» relativamente naturale, i parenti stretti e poco altro, mentre rimaniamo in contatto con il resto del mondo grazie alla tecnologia, cosa che ci riporta all’artificialità, alla privazione. Questo per dire che viviamo una vita in cui l’istinto del territorio è completamente alterato e lo affrontiamo male, facendo finta di essere tolleranti e in realtà reprimendo sentimenti di fastidio. L’uomo è sì essere sociale, ma è fatto per i piccoli gruppi, non per questi addensamenti. Quindi reprime un’aggressività che si esprime sui social e in tv.
È vero che non sappiamo più accettare la morte?
SERGE LATOUCHE — È un classico del pensiero occidentale. Lo avevamo già visto in Iraq con lo slogan «zero morti».
LUIGI ZOJA — Sì, zero morti americani...
SERGE LATOUCHE — E adesso vogliamo la pandemia a zero morti. La cosa strana è che anche i governi africani stanno prendendo le nostre medesime misure: non c’è più una cultura specifica, è il trionfo del villaggio globale.
Cambierà il concetto di etica?
LUIGI ZOJA — No, quello non cambia neanche con le guerre. Ci sarà una nuova stagione di welfare, lo Stato si riapproprierà di alcuni poteri. Per questo però servono ingenti finanziamenti: pagheremo più tasse e ci fideremo ancora meno.
Ne usciremo tutti paranoici?
LUIGI ZOJA — Lo siamo già. Stiamo vivendo una psicosi collettiva. Ero a New York, con l’attacco alle Torri Gemelle, a interessarmi non era tanto l’11 settembre, ma il 12: eravamo posseduti da reazioni spropositate, da lì si sono scatenate due guerre con costi umani giganteschi.
SERGE LATOUCHE — Abbiamo fatto cose sbagliate assolutamente non necessarie. Leggevo che in Francia, nell’agosto 1968 scoppiò l’influenza di Hong Kong: da noi 40 mila morti, un milione nel mondo. Quasi non se ne parlò.
Perché?
LUIGI ZOJA — L’invasione di Praga da parte dei sovietici, il Maggio francese...
SERGE LATOUCHE — È poco probabile che con il coronavirus si arrivi a un milione di morti. Ma dopo questo choc avremo la consapevolezza di essere un po’ paranoici.
Siete ottimisti o pessimisti?
SERGE LATOUCHE — Ottimista perché con questa crisi la teoria della decrescita ha forte risonanza, ma non abbastanza per cambiare veramente strada. Penso che quella odierna sia una tappa nel cammino del cambiamento, rimarrà qualcosa nella presa di coscienza della fragilità del sistema, anche se già sento parlare di come far ripartire i voli aerei invece di pensare all’opportunità di non viaggiare più come prima. Su questo sono abbastanza pessimista: l’idea di riprendere tutto come se niente fosse sarà forte, e su questo i miei amici si sbagliano, del resto gran parte dei partigiani della decrescita è piccolo borghese, con il balcone, il terrazzo, magari il giardino. Il popolo delle periferie però sta vivendo in pochi metri quadrati una sofferenza terribile. Vuole tornare a consumare come prima. Non siamo pronti a rinunciare alla società dei consumi.
LUIGI ZOJA — Una certa correzione delle priorità ci sarà e per qualche tempo. Di fatto vivremo in un periodo di deflazione in cui mancherà liquidità e come rimedio la Bce stamperà denaro e allora ci accorgeremo che per comprare le stesse cose serviranno più soldi.
E mancherà il lavoro.
SERGE LATOUCHE — Sì, perché ci si sforzerà di riprodurre il modello precedente alla pandemia. Nel progetto della decrescita, invece, si dovrebbero creare attività diverse. La politica liberista, per esempio, ha distrutto il sistema sanitario creato nel dopoguerra. Andrebbe rifondato. Senza però dimenticare che la medicina moderna è insostenibile, è la tesi del mio maestro Ivan Illich: come la scuola crea l’ignoranza, la medicina crea la malattia. Mi ha colpito la frase di un medico italiano: «Il luogo più a rischio di contagio è l’ospedale». La medicina moderna ha distrutto le difese dell’organismo. Ne serve una più dolce, più vicina al popolo, più localizzata. E serve un’alimentazione che arrivi da un’agricoltura biologica. Ma per questo servirebbero milioni di contadini. Poi naturalmente si dovrebbe lavorare meno, non solo per lavorare tutti, ma per vivere meglio, sono i punti del programma della decrescita, che non deve generare disoccupazione, ma risolvere il problema della piena occupazione.
In una famiglia in cui il marito è in cassa integrazione e la moglie è precaria e perderà il lavoro, in totale isolamento, siete sicuri che non si creino conflitti?
LUIGI ZOJA — Credo che dipenda dalla qualità delle persone: la situazione contingente può creare conflitti ma anche maggiore solidarietà. Si può andare in una direzione o nell’altra. Anche se oggi mi sembra che si vada più verso l’impazienza anziché la collaborazione perché viviamo una quotidianità che ci educa a tempi brevi, abituandoci all’illusione della risposta immediata e non dell’elaborazione dei contatti umani che nascono invece dalla mediazione. La sessualità per esempio, pur essendo stata sdoganata da Freud in avanti, negli ultimi due decenni sta diminuendo: si è tornati alle abitudini dei ginnasiali sporcaccioni invece di avere rapporti veri. In una coppia l’eros non è solo la sessualità, è un insieme di dialoghi, di rapporti fisici e psichici. Se diventiamo sempre più impazienti come i social ci insegnano a essere, non sappiamo più accettare il rapporto profondo e intimo con l’altro: una cosa lunga, fatta di alti e bassi. È un problema immenso ma non se ne parla perché l’eros non fa Pil.
Ci sarà più rabbia sociale?
SERGE LATOUCHE — La rabbia l’abbiamo avuta con i gilet gialli. Quando usciremo dall’emergenza la gente vorrà recuperare il tempo perduto. Sarà la stagione dell’euforia.
LUIGI ZOJA — Per qualche tempo una correzione dei valori dovrebbe rimanere, una certa accettazione da parte di tutti che servono più interventi sociali dello Stato e un maggiore rispetto per chi ha competenza, scienziati e ricercatori. Quanto durerà non lo so... Continueranno a esserci stupidità, superficialità, molta ideologia dell’happy hour.
SERGE LATOUCHE — La metafora della guerra, usata soprattutto da Macron, è detestabile. Quando avremo superato l’emergenza tutti diranno «abbiamo vinto», seguendo lo schema occidentale del conflitto eterno con la natura. Che stupidità. Su questo punto penso che non avremo imparato niente. E mi fa paura.
LUIGI ZOJA — Sono d’accordo e ho un altro timore: è entrato nell’inconscio collettivo il modello dell’americano Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. L’ho constatato in tv (non ne ho mai vista tanta in vita mia come nell’ultimo mese): l’Italia contro Bruxelles, il Sud contro il Nord. E quando ne usciremo – più poveri e amareggiati – comincerà l’«abbiamo vinto». Abbiamo perso tutti se restauriamo certe ideologie addirittura all’interno dell’Europa.
La società che ha sacralizzato lo sviluppo ha più bisogno di una dimensione religiosa?
LUIGI ZOJA — Ha bisogno di credere!
SERGE LATOUCHE — Domanda tipicamente italiana. È una religione povera quella che crede nel dio denaro. Ma un ateo come me crede che la cosa più importante sia ritrovare la capacità di meravigliarsi della bellezza del mondo. Non abbiamo bisogno di fare della decrescita una nuova religione o della natura una vera dea, ma dobbiamo ritrovare capacità di meravigliarci attraverso l’arte, la poesia. I poeti sono sempre profeti e viceversa, diceva Nietzsche.
Passeremo dalla decrescita felice alla decrescita tragica?
SERGE LATOUCHE — La decrescita non è una crescita negativa, su questo c’è un malinteso. Quest’anno registreremo di sicuro una crescita negativa, ma da tempo abbiamo un segno più ai minimi termini, lo zero virgola... E non sarà così terribile perché tra i settori più colpiti c’è il turismo e senza turismo possiamo sopravvivere. Saremo infelici? Può essere. Ma l’infelicità forse è compatibile con la gioia di vivere se felicità significa solo un Pil più elevato.