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 2020  aprile 12 Domenica calendario

Intervista al Pulitzer William Finnegan

Donald Trump si è definito a wartime president, un presidente in tempo di guerra. Il più importante portavoce della Sanità Usa ha paragonato la settimana più dura durante la pandemia a Pearl Harbor e all’11 settembre. I giornalisti hanno scritto che gli americani morti supereranno quelli dei conflitti in Corea, Vietnam, Afghanistan e Iraq messi insieme (in tutto circa 100 mila). La retorica bellica, presente non solo in America, non è priva di utilità per comunicare la gravità della situazione e la necessità di cambiare stile di vita ma allo stesso tempo risulta imprecisa: «Ci sono frammenti di precisione in questa metafora, ma solo frammenti», sostiene William Finnegan, autore di libri e di reportage per il «New Yorker» in cui ha raccontato guerre visibili e invisibili, dal Sudan alle periferie della sua nazione dove il Sogno americano è stato rimpiazzato da droghe e suprematismo bianco (in Italia è stato tradotto da 66thand2nd Giorni selvaggi, Pulitzer per l’autobiografia). 
Dopo la «guerra alla droga» e la «guerra al terrore», ora il nemico è il virus. 
«La guerra è una metafora conveniente per molti problemi che i politici vogliono semplificare troppo. Da almeno cinquant’anni, dai tempi di Richard Nixon, il governo parla di guerra alla droga, un fallimento completo che ha assorbito miliardi di dollari. Chiaramente è la metafora sbagliata. Come questa pandemia globale l’abuso di droghe è un problema di salute pubblica. Include anche la lotta alla criminalità ma la metafora della guerra non ha mai aiutato. Nei giorni scorsi Trump ha tenuto una conferenza stampa convocando i leader del Pentagono, che sembravano a disagio al suo fianco in un momento come questo, per rilanciare la guerra alla droga. Ha provato a usarla come distrazione, per cambiare discorso, il che è impossibile».
A questo punto Finnegan riceve un messaggio di allerta sul cellulare, che interrompe brevemente la conversazione.
Che cos’era? 
«Un appello di emergenza dello Stato e della città di New York a medici, infermieri e operatori sanitari, nel caso in cui qualcuno con competenze mediche che non è ancora sceso in campo stia valutando se farlo. È la prima volta che lo ricevo. Fa capire l’intensità e l’assoluta pervasività di questa sfida, che ha qualcosa in comune con il clima della guerra nel senso che diventa l’unica cosa di cui si parla, la gente ha paura, è paralizzata, niente è normale. La metafora ha la sua utilità per mobilitare la popolazione al fine di sconfiggere il coronavirus. Gli Stati Uniti non hanno vissuto la Seconda guerra mondiale sul proprio territorio come invece l’Italia, ma si mobilitarono in massa dal basso per lo sforzo bellico. Le fabbriche smisero di produrre auto a favore di caccia e missili, tutti erano incoraggiati a coltivare un victory garden, un orto della vittoria, e a fare razionamenti; emersero figure mitologiche come Rosie the Riveter (la rivettatrice), simbolo delle prime donne impegnate in fabbrica perché gli uomini erano al fronte».
È comprensibile che, a livello politico, venga usata questa metafora, perché serve una mobilitazione su larga scala...
«...Ma non è la stessa cosa: le fabbriche oggi devono produrre ventilatori, mascherine, equipaggiamento protettivo, non strumenti di guerra. La linea del fronte non è nel Pacifico, in Europa o in Nord Africa, ma negli ospedali. Lo stato d’animo, per me che ho passato parecchio tempo in luoghi in guerra, è molto diverso. Nei posti più duramente colpiti, come New York, c’è il senso che stia accadendo qualcosa di terribile, paragonabile in modo molto approssimativo ad alcuni Paesi in guerra. Milioni di persone si sentono acutamente vulnerabili. Però il contributo chiesto alla maggior parte delle persone è di stare a casa e rispettare alcuni divieti e norme sanitarie: è così diverso da gran parte delle esperienze belliche. Anche in quei casi ci sono momenti in cui devi stare a casa perché si combatte nella tua città o in cui la gente fugge, ma a New York è un po’ il contrario: i rifugiati del virus tendono a essere i ricchi, gente con una seconda casa. Inoltre le guerre tendono a essere nazionalistiche, quando sono contro altri Paesi, e le guerre civili sono intensamente ideologiche e tribali: destra contro sinistra, cattolici contro protestanti, Sud contro Nord. Non è paragonabile a ciò che accade ora, anche se ci sono voci di estrema destra che vogliono trattare quest’emergenza in modo xenofobo, dicendo che i cinesi sono i nemici che hanno iniziato tutto. A farlo è una minoranza rumorosa, ma ridotta». 

Trump ha più volte insistito nel chiamare il Covid-19 «virus cinese». 
«Sono impulsi d’estrema destra. Il suo segretario di Stato, Mike Pompeo, al G7 insisteva che il virus dovesse essere chiamato “cinese” o “di Wuhan”, al punto che non si è riusciti ad arrivare a una dichiarazione sottoscritta da tutti. Pompeo vuole usare la pandemia anche per indebolire ulteriormente l’Iran, a costo di sacrificare un gran numero di civili bloccando le forniture mediche per il Paese. Siamo in una guerra fredda con l’Iran e questa viene vista come un’opportunità per fare pressione sul regime. Di nuovo: da una parte questa metafora sembra adatta, dall’altra direi che è profondamente inappropriata». 
Quanto conterà l’effetto «rally around the flag» (il patriottismo in tempi di crisi)? A marzo Trump ha superato il 50% dei consensi per quanto riguarda la gestione del virus, anche se poi è sceso nei sondaggi. 
«Dopo l’iniziale sottovalutazione del problema, Trump a un certo punto è sembrato infatuarsi dell’idea di diventare un “presidente di guerra”, con un’autorità anche morale superiore. Si sarà paragonato a Lincoln e a Franklin Delano Roosevelt, avrà pensato che lo aiuterà a essere rieletto, la sua preoccupazione primaria. Dopo l’11 settembre, George W. Bush, che pure era impopolare, vide il tasso d’approvazione toccare l’80-90%. Quando New York era paralizzata e invasa dal fumo delle Torri, tutti guardavamo a Rudy Giuliani, che ora è l’avvocato di Trump e allora era il sindaco. Se ti diceva “Stasera vai fuori a mangiare”, anche se Giuliani non ti era mai piaciuto cenavi al ristorante. Non avevo mai avuto un rapporto simile con l’autorità governativa. Ma quando il sindaco cercò di estendere il suo secondo e ultimo mandato rinviando il voto in nome dell’emergenza, la gente disse: hai fatto un ottimo lavoro ma no, grazie».