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 2020  aprile 12 Domenica calendario

Brasile, gli errori di Bolsonaro

I brasiliani cominciano ad essere insofferenti. Sopportano a fatica il lockdown, non riescono più a restare chiusi in casa. E quando seguono sconcertati gli scambi di insulti e minacce tra il presidente Jair Bolsonaro e i governatori di San Paolo e Rio de Janeiro, allora la tentazione di rompere l’autoisolamento diventa dirompente. Ci si abitua a tutto. Anche alle vittime che hanno superato la soglia psicologica dei mille morti, primo Paese dell’emisfero Sud.
I dati sono una conferma dei danni commessi dal continuo scontro del leader con la scienza. Non è bastata la passeggiata di una settimana fa in mezzo ai venditori ambulanti alla periferia di San Paolo o i selfie ieri in una panetteria, c’è voluta anche la preghiera collettiva, senza alcuna protezione, accalcati attorno ai capi delle Chiese evangeliche che Bibbia a rosario in mano hanno pronunciato un Padre nostro per chiedere a Dio la cacciata del virus. Tutto questo, assieme alle polemiche con la Cina, accusata dal figlio Eduardo di essere responsabile della diffusione del coronavirus che hanno provocato una durissima reazione dell’ambasciatore di Pechino, ha fatto breccia sulla popolazione. Tutti sanno che cosa significhi questo virus e i morti che provoca. Ma gli esempi della più alta carica dello Stato finiscono per prevalere.
I racconti, e le scuse, che si sentono nelle chat e si scrivono sui social fotografano bene una realtà che sta prendendo piede in Brasile. Soprattutto a San Paolo che è il principale focolaio del Covid 19. Solo qui, capitale finanziaria dell’America Latina, ci sono 540 morti, in 20 giorni di isolamento, sui 1.056 registrati ufficialmente nel gigante sudamericano. Ma sempre qui la speciale app creata dal governatore João Doria per registrare il tasso di isolamento in casa sabato segnava il 47 per cento.
Il ministro della Salute, fautore della linea dura, è allarmato. San Paolo, il Distretto Federale e altri quattro Stati (Amazonia, Amapá, Ceará, Rio de Janeiro) stanno per raggiungere il picco. Il sistema sanitario nazionale è vicino al collasso.
L’altro grande allarme scatta nelle tribù indigene. Ieri la prima vittima: un ragazzo di 15 anni, Alvanei Xirixana, dell’etnia Yanomani, è morto dopo essere rimasto intubato per una settimana in un ospedale di Boa Vista. Proveniva da Rehebe, un villaggio lungo il fiume Uraricoera usato dai 20 mila garimpeiros, minatori illegali, per raggiungere le terre più ricche di minerali. Il sito Amazônia real afferma che altri 70 abitanti dello stesso villaggio, come i genitori del minorenne, sono in isolamento. Le statistiche ufficiali parlano di 24 casi sospetti su 850 mila indigeni. E questo fa pensare che il coronavirus si sia già infiltrato tra le tribù più fragili ed esposte. Molti anziani ricordano le stragi degli Anni ’70 e ’80. Popolazioni messe in ginocchio dal morbillo. Anche allora la morte arrivò dall’esterno. Da operai che costruivano strade e dai cercatori d’oro.