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 2020  aprile 12 Domenica calendario

Biografia di Tosca raccontata da lei stessa

Nuda davanti a se stessa. Pochi fronzoli, nessun trucco sul viso, i capelli scompigliati come una ragazza delle medie che si è svegliata tardi, la felpa con il cappuccio, il sorriso intatto, e alcuna maschera protettiva, di quelle che ognuno, nei momenti di debolezza, impara a costruire davanti agli ostacoli; a 52 anni, in arte Tosca, resta Tosca nella vita, ma non nasconde Tiziana, il pudore per la sua infanzia (“quando uscivo con un ragazzo non rivelavo mai il mio quartiere di provenienza”), i problemi con il cibo, i contrasti con la discografia, la sua dedizione alla canzone romana, gli stornelli, Gabriella Ferri, il guru Lucio Dalla (“croce e delizia”), le aspettative degli altri, e la scoperta delle proprie priorità. Alla fine sottolinea qualcosa di semplice con tono semplice, ma con il sottotesto non così scontato: “Mi piace la vita. Mi piace la musica che affronto oggi. Amo gli stornelli”.
I romani li conoscono?
Solo quelli volgari, definiti “a dispetto”, come le “osterie” e “Pierino”; meno i poetici, detti “a rispetto”.
Come è nato tutto?
Anni fa avevo iniziato con la sperimentazione del teatro-canzone, un’esperienza poco frequente in Italia, troppo faticosa, e i primi tempi non sapevo dove aggrapparmi, fino a quando in un teatrino romano arrivò Gabriella…
La Ferri.
Precedentemente, e più volte, le avevo manifestato il mio amore per lei e quando ha accusato la prima grave crisi di nervi, chiamò Pingitore per il Bagaglino: “Prendi lei al posto mio”. Io avevo solo 23 anni.
E poi?
Mi diceva sempre: “Lassa perde, non sono un esempio. Meglio Mina”.
Insomma, in quel teatrino…
Sale sul palco e inizia a cantare con me; non me lo aspettavo, tanto da non aver preparato nessun altro microfono. Io dall’emozione balbettavo, per me era un emblema unico di arte e libertà, di come si affronta questo mestiere solo per il piacere dell’arte.
La Ferri cosa le diceva?
Mi raccontava il dolore, di quanto fosse complicata quella libertà, della lotta non solo verso gli altri ma pure verso se stessi. (silenzio); alla fine di quella serata mi ha spronata ad affrontare la canzone romana, e io: “Ci sei tu, Gabriella. Mi vergogno”. Risposta: “Sono tanto stanca. E ci deve sempre stare qualcuno che la riprende, altrimenti muore”. “Ma è roba vecchia…”. “No! Sono le nostre radici, la nostra casa di appartenenza”.
E da lì?
Una sera mi chiama Nicola Piovani per uno spettacolo dedicato a Roma. E ci sono cascata dentro, un richiamo ancestrale, poi condiviso e sviluppato grazie a Massimo (Venturiello, il compagno).
L’interpretazione della Ferri proveniva da una sofferenza forte…
Esistono vari tipi di dolore, e quello di Gabriella era molto più scoperto, con grossi ed evidenti down, in alcuni momenti era come una donna senza pelle; mentre quelli della mia generazione hanno un po’ più di pudore nel mostrarsi, ma anche io ho vissuto fasi complicate come l’anoressia.
A che età?
Intorno ai 22 anni; allora il mio fulcro era tra l’essere e l’apparire, divisa anche rispetto alle richieste del sistema-musica e il mio reale “io”.
Tradotto.
I primi lavori andavano a saziare un gap che a quel tempo credevo di sentire…
Che gap?
Abitavo a Garbatella, in quegli anni quasi una periferia romana, e non avevo grandi possibilità economiche: se non eri famosa, voleva dire che non facevi parte della realtà musicale. All’inizio ho assecondato tutte queste debolezze.
I suoi genitori?
Sono buonissimi (cambia voce, tono d’amore), non mi hanno mai fatto mancare nulla, anzi si sono ammazzati per me, e sono figlia unica.
E dopo quell’inizio?
Sono andata in crisi, a un certo punto ho capito che non ero io, è crollata la costruzione mentale, e nonostante un contratto discografico importante e una prospettiva dorata soprattutto dopo la vittoria a Sanremo. (riflette, cambia sguardo) Quel contratto era terribile.
Addirittura.
Per loro ho cantato brani che trovavo orridi, anzi provavo schifo e quando ho chiuso sono dovuta restare ferma sei anni, e la stessa casa discografica pretendeva di tenere il nome “Tosca”. Che è il mio.
Com’è possibile?
Mi chiamo Tiziana Tosca Donati, ma nella loro tesi, “Tosca”, era una creazione a tavolino da assegnare ad altri.
In quei sei anni?
Ho studiato tantissimo e andavo, in veste di apprendista, da tutti i più grandi cantautori come Lucio Dalla, Renato Zero, Ivano Fossati o Riccardo Cocciante; l’aspetto più grave non era la trappola nella quale ero caduta, ma il non sapere cosa volevo; ma quello è stato un periodo bellissimo.
Cosa le dicevano?
Erano molto incazzati con il sistema e mi invitavano a non mollare. Non si possono prendere in giro i ragazzi di vent’anni, c’è bisogno di onestà.
Lei ha definito i talent come “un Colosseo”.
In assoluto non sono contro, di per sé è una finestra, ma l’uso è sbagliato, e la discografia ha svenduto la musica alla televisione: la musica si è adattata al sistema degli sponsor, dei parrucchieri, dei truccatori, ed è all’ultimo posto; la mia generazione aspettava l’uscita dei dischi fuori dai negozi…
Dove trovava i soldi?
Avevo una paghetta e poi mi ingegnavo con qualunque tipo di lavoretto, dalle ripetizioni alla baby sitter, e poi giocavo nella serie B di pallavolo.
Quale squadra?
Era ancora amatoriale, poi a 17 anni mi chiamarono per un provino con la Nazionale e le ragazzine di 14 anni avevano venti centimetri più di me. Lì ho capito, ho posato il pallone e ho detto “basta”. (pausa) Perché l’ho raccontato?
Per i soldi.
Sì, mi arrabattavo, ma il lavoro più brutto è stato quello di chiamare gli anziani per la vendita delle enciclopedie, mi sono beccata una serie infinita di parolacce. Ho retto cinque giorni.
Ma com’era Garbatella?
L’amo tanto, è un pezzo del mio cuore, ma non era un bel quartiere e quando uscivo con un ragazzo, alla domanda dove vivi? rispondevo “l’Eur”, e per l’appuntamento mi piazzavo sotto il Fungo (uno dei punti centrali dell’Eur). Alla fine, quando mi salutavano, prendevo l’autobus.
Torniamo al momento di rottura con la casa discografica…
Esce Incontri e passaggi, uno dei dischi che amo di più, con dentro tutti grandi autori come Dalla, Fossati, Bubola e Morricone.
E…
In coppia con Ron avevo già vinto il Sanremo del 1996, e da lì ero avvolta da una popolarità incredibile, talmente incredibile da impedire ogni altra decisione rispetto alle mie volontà musicali.
Ma…
Con quell’album torno al Festival da solista, la casa discografica sceglie un pezzo bello ma non adatto, spiegandomi una presunta strategia. Macché. Dopo Sanremo si sgonfia tutto. Così mi organizzano un appuntamento a Uno mattina, io dubbiosa: “Come posso cantare alle sei del mattino una canzone del genere?”.
Alla fine?
Entro in studio per le prove, mi trovo un microfono troppo alto e azzardo: “Mi scusi, così non riesco a cantare”; a quel punto compare l’autore che stupito mi domanda: “Ma nun dovemo fa’ Tosca?”. “Sì”. “E alla Tosca ‘ndo lo metto il coro?”; poi riflessivo aggiunge: “La Tosca senza coro che cazzo de opera è?”. Sono uscita da lì, ho pianto all’infinito, e ho detto basta.
Canta ancora “Vorrei incontrarti tra cent’anni”?
Sì, mi piace ancora tanto, ha una bella melodia e di quel Sanremo ho un bel ricordo.
Vittoria inaspettata arrivata mentre eravate a cena…
Loro a cena, io non mangio niente, al massimo mi nutrivo di pasta al pesto; (sorride) ma sono rinomata, Fiorella (Mannoia) quando mi invita a cena domanda: “Che te faccio?”; comunque sì, non lo sapevamo, eravamo andati via, poi all’improvviso la chiamata e la corsa all’Ariston.
A Ron è arrivata grazie a Lucio Dalla.
Croce e delizia. Rido quando lo vogliono far passare come un santino, mentre era tremendo ed era il suo bello…
Cioè?
Un dissacratore, un imprevedibile; ci ho lavorato insieme due anni e non ho mai capito cosa pensava, mi spiazzava continuamente e mi chiamava “maestrina”; (ride) ed ero uno dei soggetti per i suoi scherzi…
Tipo?
Dormivo a casa sua, una notte sento della musica, così la mattina gli domando: “Questa notte hai suonato?”. E lui: “No, no”. Insisto, ma nega. Poi lancia uno sguardo ai suoi inservienti: “Allora è tornato. È tornato! Morandi lo ha visto nello specchio mentre si tagliava la barba”. “Ma chi?”, intervengo io. “Il fantasma!”. “Lucio, non ti offendere ma vado in hotel”.
Un modo garbato per mandarla via.
Ci ho pensato, ma qualche giorno dopo mi chiama Morandi: “Ho saputo che hai sentito il fantasma suonare”.
Diceva croce e delizia. Anche per altro?
Mi voleva portare in tournée europea con lui, ma non gi davo una risposta. Così durante gli spettacoli, quando presentava la band, con me attuava un rituale: “Signore e signori, Iscra”. Salivo sul palco e precisavo: “Tosca”. Il problema è che la stessa punizione mi è toccata a Roma, con tutta la mia famiglia presente…
E lei?
Non sono entrata; però ogni suo soundcheck era una lezione di vita e forse non sarei quella che sono se non avessi conosciuto Lucio.
Un consiglio importante che ha ricevuto?
Da Renzo Arbore. Ho iniziato con lui, ero la vocalist della band, e vuol dire la Serie A; lui mi ha insegnato il valore della curiosità, oltre a permettermi di vedere dal vivo artisti come Murolo o Miles Davis, dei fuoriclasse da respirare; non solo, una sera dopo una cena mi accompagna alla macchina, una vecchia 500, e all’improvviso si ferma a parlare con il parcheggiatore. E a lungo.
Quindi?
Il giorno dopo gli chiedo il perché, e lui: “Ma da dove pensi che prendo ispirazione? Queste sono le persone più belle, la gente vera, quella che fa fatica a vivere. Quella è linfa. E se non sai qualcosa del tuo prossimo, della tua vicina, della tua portiera, non andrai da nessuna parte”.
Filosofia pura.
Non solo, un giorno mi chiede: “Ma tu, in una scala da uno a dieci, dove sei?”. “A 9”. “Quindi tra un anno o due sei a 10!”. “Sì”. “Allora dopo scendi, perché l’11 non c’è”. A quel punto sono io a ribaltare: “Tu Renzo dove sei?”. “A 6, massimo 6 e mezzo”. Eppure aveva appena finito Quelli della notte. A quel punto ho capito.
Le manca la tv?
Il pubblico televisivo è spietato, ogni tanto qualcuno mi incontra e si stupisce: “Ma lei non canta più?”; oppure: “Che mestiere fa?”; a una signora ho risposto: “Io non vado più in televisione, ma lei non frequenta il teatro”.
Difficile.
Alla fine il mio percorso è questo, non rinnego neanche i momenti di crisi, perché mi piace dove sono arrivata, amo il mio percorso attuale.
A cosa ha rinunciato?
Oltre allo status di popstar e allo status economico?
Sì.
Ai figli. Ho rimandato, ho rimandato ancora, poi quando credevo fosse giunto il momento, oramai era tardi.
La prima cosa che farà post-quarantena.
Dirigo un centro culturale, Officina Pasolini, ed è la mia seconda casa: voglio salvarlo, è un polmone, il nostro futuro; ma non cambierà molto la mia vita, talebana ero e talebana resto.
Cosa le ha insegnato il virus?
Sono stra-cambiata, ho imparato a cucinare, ho preparato la pizza e le melanzane alla parmigiana, e ogni venerdì su Instagram c’è Fiorella che mi dà lezioni.
Ha un carattere forte?
Sembra. (Pausa) Diciamo che mi piace molto la vita.
(Canta Tosca in “Ho amato tutto”: “Se tu mi chiedi in questa vita cosa ho fatto, io ti rispondo ho amato. Ho amato tutto”)