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 2020  aprile 12 Domenica calendario

Quando lo scarafaggio non è più nel bicchiere

Nei primissimi giorni dell’epidemia, quando le informazioni erano ancora incerte e ci si recava normalmente al lavoro, mi è capitata un’esperienza interessante (che credo sia poi diventata alquanto comune). Entrato un po’ bruscamente nell’ufficio angusto di uno dei nostri tecnici reggendo il mio laptop che aveva un problema, vedo il giovanotto sbiancare e distanziarsi da me per dirigersi verso la finestra e spalancarla, rimanendo poi a prudente distanza. Colta la sua preoccupazione e memore di un qualche suo trascorso da ipocondriaco mi premuro di dirgli che i pochi dati disponibili suggeriscono che la carica infettante di Covid-19 risulta completamente azzerata sulla plastica dopo circa settantadue ore; il mio suggerimento perciò è che prima di mettere le dita sulle tastiere usate da altri procedesse a disinfettarle o usasse dei guanti. Evito, invece, di fargli notare che aprire la finestra difficilmente avrebbe nuociuto al virus, ma che date le temperature ancora rigide della primavera trentina avrebbe probabilmente nuociuto a noi due, causandoci un raffreddore. 
Dopo l’introduzione delle norme volte ad aumentare il distanziamento sociale, sono state spese parole di elogio per il buon comportamento degli italiani, che pare abbia stupito alcuni commentatori. Ripensando alla mia esperienza, tuttavia, confesso di non essere stupito. Certo, i popoli mediterranei come il nostro si caratterizzano per regole di prossimità e contatto fisico socialmente accettabile diverse da quelle dei popoli nordici. Ma quando si tratta di contagio, non sono gli imperativi culturali e sociali a dettar legge, ma quelli biologici. 
Il padre degli studi scientifici sui processi mentali che sottostanno al timore del contagio è lo psicologo Paul Rozin. Gli esseri umani, come peraltro anche gli altri animali, sembrano possedere forme di adattamento specifiche per cogliere la correlazione tra un disturbo somatico e i suoi possibili agenti causali. Lo si può notare bene nel comportamento dei bambini, che da infanti sono disponibili a sperimentare qualsiasi tipo di cibo purché venga offerto da chi si prende cura di loro, ma che diventano poi estremamente schizzinosi. Molti genitori ricordano la cura maniacale con cui per un certo periodo i loro figli si preoccupavano di evitare contatti tra tipi diversi di cibo nel piatto, scoppiando in pianti disperati quando il purè aveva «contaminato» la bistecca. Ma l’accortezza nell’evitare contatti con potenziali fonti di pericolo si estende oltre il cibo, e riguarda ad esempio i cadaveri in decomposizione, le feci, le persone malate: circostanze tutte che sono legate a importanti ragioni adattative.
Il sistema cognitivo che si è evoluto per evitare il rischio del contagio opera indipendentemente dal possesso di conoscenze precise circa i meccanismi causali sottostanti (nell’ambiente ancestrale i nostri antenati nulla sapevano di patogeni quali i batteri o i virus). Si appoggia invece su meccanismi di apprendimento associativo che nel sistema nervoso provvedono a rilevare nessi di causalità tra gli eventi sulla base della loro contiguità spaziale e temporale. Hai mangiato quel cibo e poi hai avuto mal di pancia? O sopra quel cibo aveva camminato quel particolare insetto? D’ora innanzi la sola vista di quel cibo ti indurrà conati di vomito ed eviterai accuratamente che quell’insetto si avvicini ancora a quel che mangi… Che esista un vero nesso causale può essere del tutto illusorio, ma in natura meglio essere prudenti che defunti. Sul rischio di essere contagiati gli esseri umani (come il mio tecnico) sono estremamente circospetti.
Rozin aveva condotto un celebre esperimento nel quale veniva collocato uno scarafaggio in un bicchiere; dopo che il bicchiere era stato vuotato, disinfettato e sterilizzato le persone apparivano comunque estremamente riluttanti a usarlo. Provate voi stessi questo semplice esperimento. Chiedete a qualcuno di sputare in un bicchiere. Sareste disposti a bere la saliva dal bicchiere? No, ovvio, la sola idea vi disgusta. Bene, immagino invece che non proviate alcun disgusto per la vostra saliva, quella che adesso avete in bocca. Provate a sputarla in un bicchiere e chiedetevi se dopo qualche istante sareste disposti a berla. Probabilmente no. Anzi, è sufficiente anche solo trattenere a lungo la propria saliva in bocca, lasciando che si accumuli nel cavo orale per qualche minuto, per provare una forte resistenza a inghiottirla e preferire invece sputarla.
Il rischio psicologico di contagio, secondo Rozin, sembra basarsi su alcune specifiche inferenze, che sono un portato della nostra storia biologica. Oggi sappiamo che queste inferenze non riflettono soltanto meccanismi di apprendimento associativo, ma anche una concezione intuitiva di «essenza». In primo luogo, l’agente contaminante non deve necessariamente essere visibile, esiste ma è qualcosa che attiene all’essenza stessa di un particolare oggetto (per gli esseri umani la carcassa in decomposizione di un animale morto è un agente contaminante da ben prima che fossero inventati i microscopi). In secondo luogo, qualsiasi tipo di contatto può veicolare il contagio, non solo l’ingestione, questo perché l’essenza può passare da un oggetto a un altro. E, infine, anche un contatto limitato trasmette per intero (e non in un modo che dipenda dalla dose) il contagio.
L’essenzialismo psicologico è stato studiato inizialmente nei bambini di età prescolare, da ricercatori come Susan Gelman. Quando debbono porre distinzioni tra categorie che rivelino la loro concezione intuitiva della biologia, come ad esempio perché i cani siano differenti dai gatti, i bambini vanno oltre le apparenze e inferiscono che deve esserci una qualche proprietà interna che fa di un cane un cane. Argomentano che se anche venisse allevato con una cucciolata di micetti da una mamma gatta rimarrebbe un cane. E se anche modificassimo muso e orecchie per farlo assomigliare a un gatto resterebbe un cane. Questo perché c’è qualcosa che definisce il suo essere cane che va oltre le mere sembianze. Ovviamente noi sappiamo che, in ultima analisi, l’essenza della «caninità», ammesso che qualcosa del genere esista, sta nel DNA. Ma questa non è una conoscenza di cui disponga un bambino di quattro anni (e, per la verità, neppure la maggior parte degli individui adulti nel mondo). Ma non importa che gli esseri umani, anche adulti, sappiano dire precisamente in che cosa consista un’essenza per essere convinti che categorie come i cani, i dipinti di Cezanne o le donne siano caratterizzati da un’essenza. 
L’essenza è ciò che conferisce valore a un oggetto, che lo rende unico (da cui la passione per gli oggetti originali, come un autentico Cezanne). Il valore dell’oggetto può provenire da chi l’ha posseduto o usato o toccato. Sono quindi esempi di contagio magico le credenze nei poteri miracolosi delle reliquie sacre o le superstizioni di origine moderna che un trapianto di cuore possa trasferire nel ricevente le qualità psicologiche del donatore. C’è questa intuizione radicata negli esseri umani che un oggetto possa portare con sé la propria storia, e che le qualità morali o psicologiche possano trasferirsi tra le persone; un’intuizione che si combinerebbe con la tendenza adattiva a prestare attenzione alle possibili fonti di contagio. 
Questo non significa che siamo sempre in grado di valutare correttamente le fonti di contagio. Le ricerche di Rozin e di altri psicologi evoluzionisti hanno rivelato che i germi degli individui che ci sono amici o che amiamo fanno meno paura di quelli dei nemici: le persone sono convinte che i primi facciano ammalare di meno. Nondimeno, la buona notizia è che tutti noi esseri umani, italiani e non, siamo predisposti biologicamente a mettere in atto comportamenti adattativi di fronte al rischio del contagio. Semmai possiamo eccedere nelle precauzioni, ma, evolutivamente, è un bene che sia così.