Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2020
Sui racconti di Luigi Malerba
Luigi Malerba è un classico. A rileggere oggi i suoi racconti, i primi come gli ultimi, è difficile non riconoscere dappertutto lo stesso inconfondibile gusto per la demistificazione e la stessa avversione al realismo di stampo ottocentesco che sono stati la cifra migliore degli anni Sessanta, quando Malerba si è affermato come narratore. Eppure, contemporaneamente, quel dato di partenza storico appare ormai come distillato in una posizione etica e conoscitiva. E alla fine importa soprattutto che, a squadrare il mondo coi suoi occhi, a ogni lettura si colga qualcosa che altrimenti cadrebbe inevitabilmente al di là del nostro spettro percettivo. Come a dire l’infrarosso o l’ultravioletto della vita.
Assai bene ha fatto dunque Gino Ruozzi a riunire tutti i racconti di Malerba in un unico volume accompagnandoli con un saggio di rara completezza, quasi una piccola monografia. Senza nulla togliere ai romanzi, questa raccolta si candida anzi a diventare la principale porta d’accesso per quanti in futuro decideranno di avventurarsi per la prima volta nella terra di Malerbandia (un poco come, nel caso di Landolfi, avviene da quasi quarant’anni con l’antologia curata da Italo Calvino). Non resta, allora, che raccomandare a tutti caldamente il viaggio. Per quanti però ancora preparano i bagagli può avere senso dire qualcosa sulle singolari leggi fisiche, morali e psicologiche che regolano la vita in questa eccentrica provincia della letteratura.
Anzitutto le dimensioni. Con qualche rara eccezione, la grande maggioranza dei racconti di Malerba oscilla tra cinque e sei carelle. È la traccia di un’epoca in cui i quotidiani usavano commissionare ai romanzieri più affermati brevi testi di finzione ma di necessità imponevano un formato standard, che dall’Unità in poi ha plasmato l’ispirazione dei narratori come per secoli l’endecasillabo e le rime alternate del sonetto avevano fatto coi poeti. È quello che in letteratura si chiama una contrainte, o costrizione: un limite, un ostacolo, che obbliga a escogitare nuove strade, e che nel caso di Malerba sembra avergli insegnato anzitutto a trarre il massimo profitto dai minimi dettagli. Ma, come segnala Ruozzi, la commissione originaria significa pure che, tolte La scoperta dell’alfabeto e Le rose imperiali, le raccolte di Malerba sono venute formandosi per accumulo, mentre in parallelo procedevano i suoi progetti romanzeschi. Una produzione “laterale”, insomma: ma non per questo, in alcun modo, secondaria.
Meno libera che il romanzo quanto a strutture, la narrativa breve lavora necessariamente su alcune forme elementari ricombinando, occultando le tracce, deludendo le aspettative dei lettori. C’è il racconto in cui qualcosa cova sotto la cenere per emergere improvvisamente nel finale (come un sottotema di una sinfonia: è sempre stato lì, ma a un certo punto eccolo occupare il centro della scena). C’è il racconto che sorprende con la perfetta simmetria del ribaltamento e quello che si organizza invece attorno a un movimento circolare. C’è il racconto che esplora una situazione bloccata, e non contempla alcuna via d’uscita. E c’è il racconto in cui un’iniziale situazione di equilibrio viene messa in crisi dall’irrompere imprevisto di un elemento estraneo. La costruzione che Malerba predilige è invece un’altra ancora. Nei suoi testi brevi quasi tutto è racchiuso in nuce nelle prime righe, a volte addirittura nella frase di apertura, perentoria quanto enigmatica, pensata appositamente per incuriosire il lettore prima che quella intuizione iniziale venga spinta a poco a poco alle sue estreme conseguenze. I racconti di Malerba sono insomma anzitutto rigorosamente deduttivi: come un teorema matematico.
La concentrazione e l’organizzazione deduttiva portano con sé il terzo elemento caratteristico della narrativa breve di Malerba. Quasi sempre si tratta di storie raccontate alla prima persona, con un protagonista impegnato a osservare l’universo attorno a sé e a interrogarsi sulle strane leggi che lo governano (l’eccezione maggiore, ancora una volta, è costituita da La scoperta dell’alfabeto e Le rose imperiali: quasi che il mondo contadino e l’antica Cina imponessero un distanziamento supplementare). La metafora visiva si rivela particolarmente adatta a descrivere questo tratto dell’immaginazione malerbiana anche perché leggendo le sue pagine viene ripetutamente da pensare a quegli apologhi barocchi in cui, inforcato sul naso un paio di occhiali magici, un personaggio scopre infine il mondo per come è davvero: con i suoi vizi e con le sue follie.
È possibile, certo, che anche al cuore della narrativa di Malerba si annidi un moralista pronto a satirizzare il proprio tempo – e, quanto all’Italia del secondo Novecento, in queste pagine all’appello non manca davvero nulla: il mondo contadino e la sua fine, la mafia, la politica corrotta, la memoria della Resistenza, la morale cattolica, gli spaventosi progressi della medicina, il femminismo, l’ecologia, l’irresistibile ascesa dell’industria culturale, il diffondersi delle filosofie orientali… Da una prospettiva strettamente letteraria, però, l’aspetto rilevante di questa scelta monoprospettica è che lo sguardo dei personaggi di Malerba risulta quasi sempre così intenso da aprire quasi inevitabilmente una crepa tra l’io e il cosmo: fino a quando persino ciò che sembrava domestico e familiare si rivela tutt’al più addomesticato. Pronto, cioè, a ripresentarsi nella sua ferocia originaria.
La singolarità dei racconti di Malerba dipende però probabilmente anzitutto dalle strane creature che li popolano. Dietro l’occhio che scruta sospettoso il mondo si annida infatti un personaggio dai tratti ricorrenti. Ragionatori impeccabili, sino alla follia (se ancora è possibile separare in maniera netta la follia dal genio), con una speciale curiosità per i saperi polverosi e per le scienze strane, i protagonisti dei racconti di Malerba disprezzano chi si accontenta di spezzare un capello in quattro perché loro sono in grado di sezionarlo almeno in otto o in sedici – anche se ogni tanto qualcuno prova a persuaderli che quel capello potrebbe addirittura non esistere. Il mondo non li capisce! Lo scetticismo degli altri, comunque, non frena affatto i loro desideri. Perché se la satira del pedante è un topos letterario sin dal Cinquecento, i loici malerbiani si distinguono per uno squilibrio delle facoltà appetitive che implicitamente o esplicitamente può assumere i tratti della lussuria o della gola senza che dell’una o dell’altra si tratti veramente (anche nei romanzi: dove c’è chi sogna di divorare l’amata e chi aspira a congiungersi carnalmente con sé stesso). Per un materialista radicale come Malerba non cambia molto, in fondo: assorbire le idee, nutrirsi, copulare sono tutti modi di impossessarsi dell’oggetto del desiderio da parte di un soggetto ipertrofico che non si sentirà sicuro finché lì fuori ci sarà ancora qualcuno o qualcosa a opporgli resistenza. A meno che, invece, quello di Malerba non sia piuttosto una forma di idealismo estremo: dove tutto, ma proprio tutto è destinato a finire fagocitato dal grande occhio-bocca-sesso con cui, indifferentemente, ci protendiamo verso il mondo. Esse est vesci, dunque? Nella loro simmetrica pretesa di inglobare l’universo intero, Jean-Paul Sartre accusava tanto il materialismo quanto l’idealismo di essere delle “filosofie alimentari” (sino a equivalersi). L’accusa suona plausibile. Ma nessuno, occorre aggiungere, ne è mai altrettanto persuaso come dopo qualche settimana di allegra permanenza a Malerbandia.