Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2020
Voci da Gaza, il disastro dietro l’angolo
«Caro mondo, come ci si sente a vivere in quarantena? Un saluto sincero dalla vostra Striscia di Gaza, in isolamento da 14 anni». L’ironico tweet scritto da un abitante della Striscia ricorda in modo originale la situazione in cui versa la popolazione dell’Enclave palestinese divenuta nel 2007 il regno del movimento islamico Hamas.
Sono trascorsi 13 anni da quando Israele decise di imporre un embargo sulla Striscia di Gaza, sigillando i suoi confini. Da allora le restrizioni al passaggio di merci e persone sono state molto severe. Paradossalmente questo isolamento, che ha messo in ginocchio l’economia di Gaza, ha auto un effetto positivo: ha funzionato come uno strato impermeabile nei confronti del Coronavirus. Non è più così. Il 21 di marzo sono apparsi i primi due casi ufficiali, due uomini rientrati dal Pakistan. Un’inezia rispetto ai quasi 10mila contagi della vicina Israele. Eppure tanto è bastato per rabbuiare il volto della leadership di Hamas. La paura è tanta. Perché in questo fazzoletto di terra di 360 chilometri quadrati vivono quasi 2 milioni di persone, molte delle quali ammassate in otto campi profughi, alcuni dei quali vantano tra le densità più alte al mondo.
Esauriti i tamponi
Se finora i casi ufficiali di Covid-19 sono davvero pochi, altrettanto pochi sono stati i tamponi eseguiti. «Le attività di testing al nostro laboratorio centrale sono state sospese dopo che i tamponi e i liquidi reagenti sono andati esauriti» ha spiegato al Sole-24 Ore il dottor Midhat Abas, direttore generale dell’assistenza sanitaria di base presso il Ministero della Salute di Gaza. In collegamento dalla Striscia, Matthias Schmale, il direttore per Gaza dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), fa il punto della situazione. «Finora non c’è stato un focolaio locale. Ma al di là dei 13 contagi accertati, non sappiamo se ve ne siano altri. Francamente è una sorpresa che non vi sia ancora stata un’epidemia. Ma non possiamo permetterci di speculare. Dobbiamo fare di tutto per essere pronti».
Il Governo di Hamas è apparentemente riuscito a contenere l’epidemia. «Abbiamo agito per tempo, con severe misure di quarantena per chiunque entri nella Striscia – continua il dottor Midhat Abas -. Abbiamo predisposto 26 centri, un ospedale per trattare i pazienti di Covid-19. Finora abbiamo avuto ragione. Considerando la povertà dilagante, e la carenza di attrezzature negli ospedali, la prevenzione è la sola arma a nostra disposizione. Ma non posso dire di essere ottimista per il futuro. Tutt’altro». Pochi giorni dopo i primi casi, Hamas ha ordinato la chiusura di mercati, caffè, scuole, ristoranti e moschee. Guai se l’epidemia dovesse scoppiare in questo angolo del Medio Oriente. «Le strutture sanitarie e lo staff medico sono impreparate e insufficienti per affrontare una grave epidemia. Oltretutto se scarseggiano mascherine e dispositivi di protezione in Europa, figuratevi qui. Stiamo provando a convertire alcune industrie per produrre mascherine, ma è difficile reperire anche le materie prime», spiega Ghada al-Jadba, direttore sanitario dell’Unrwa di Gaza.
Campi profughi sovraffollati
Intanto, in assenza di un lockdown, la gente continua a circolare liberamente. In auto, a piedi, sui carretti trascinati dai muli. La realtà dei campi profughi, come Jabaliya, Shati, Shuja’yya o Khan Younis, è poi un’altra. In queste baraccopoli di calcestruzzo, dove gli stretti vicoli non lasciano passare la luce del sole, dove l’acqua corrente è un lusso riservato a pochi, dove si dorme anche in sei persone in una stanza, il distanziamento sociale diviene un’operazione difficile solo da immaginare, fanno notare il direttore dell’Unrwa e la dottoressa al-Jadba. Sami Abu Salem, 50 anni, giornalista, vive nel campo di Jabaliya con la moglie e i quattro figli. «In principio – racconta – alla notizie dei due primi contagi, la gente era spaventata. I farmacisti mi dicevano che vendevano molti gel disinfettanti e guanti. Sono bastati pochi giorni a far svanire la paura. La gente a Jabaliya si comporta quasi come se il virus fosse qualcosa di lontano. Certo, quando si incontrano, gli uomini non si baciano più sulle guance. Però si stringono le mani. I bambini giocano a calcio. Il distanziamento è un concetto inafferrabile».
Hamas ha spedito la polizia per invitare le tante persone che cercano svago sulle spiagge a rientrare in casa. Invano. Anche Yosri Ghou, scrittore e attivista, è preoccupato. «Consapevole di non aver mezzi per contrastare un’epidemia, molte persone hanno preferito sottovalutarla. Se siamo sopravvissuti a tre guerre contro Israele, a 13 anni di embargo, a condizioni sanitarie precarie – pensano in molti – perché dovremmo curarci di una minaccia che nemmeno si vede». Si vive dunque alla giornata. Ma con la consapevolezza che se scoppiasse un’epidemia su larga scala l’impatto sarebbe drammatico. Molto più qui che altrove. Bastano pochi numeri per avere un’idea dell’inadeguatezza del fatiscente sistema sanitario della Striscia. Gli ospedali dispongono soltanto 80 posti in terapia intensiva. I ventilatori disponibili sono 70, ma 45 sarebbero già occupati, ha reso noto l’Organizzazione mondiale della sanità. In pratica gli Usa, pur avendo un numero del tutto insufficiente di ventilatori, ne hanno comunque 52 ogni 100mila abitanti. Gaza soltanto tre. «Ricordiamoci che il Covid non annulla le altre gravi malattie presenti a Gaza, ma vi si aggiunge», precisa la dottoressa Ghada. «Abbiamo pochi casi. Tuttavia a causa dell’embargo non abbiamo farmaci, materiale sanitario di protezione per i nostri medici e infermieri, che comunque sono pochi, non abbiamo nemmeno abbastanza guanti o mascherine. Faccio un appello affinché sia permesso a medicinali, ventilatori di arrivare subito a Gaza», continua Midhat Abas.
Senza ventilatori né posti letto
Secondo un rapporto dell’International Crisis Group fino a un quarto della popolazione è a rischio contagio. Di queste, il 20% avrà presumibilmente bisogno di un ricovero. Ci vorrebbero dunque 100mila posti letto solo per i casi di Covid-19 a fronte di una disponibilità complessiva di 2.500 unità. Secondo le autorità sanitarie israeliane, in un plausibile scenario di contagio, potrebbero morire 50mila persone.
Ad aggravare una situazione già difficilissima è stata la decisione dell’Unrwa, il 23 marzo, di sospendere la distribuzione degli aiuti alimentari. «Eravamo molto preoccupati che i nostri 11 centri di distribuzione potessero trasformarsi in focolai. Abbiamo avviato la consegna a casa di aiuti alimentari a 4-5mila famiglie. Ma non so se saremo in grado di raggiungere tutte le persone», spiega il direttore dell’Unrwa, che sottolinea come la situazione economica a Gaza fosse drammatica già prima della pandemia mondiale. A Gaza si stima che la disoccupazione stia puntando al 70%. Diversi giovani sposi sono finti in carcere poco dopo le nozze per non aver pagato i debiti contratti per il pagare il matrimonio. «La mia preoccupazione è che in caso di un’epidemia grave, Israele possa decidere di chiudere completamente i confini per precauzione, fino a bloccare le consegne di cibo e farmaci», precisa il direttore dell’Unrwa.
Sarebbe la catastrofe. Per ora molti palestinesi ostentano un atteggiamento indifferente che rasenta l’incoscienza. «Quando esco di casa con indosso una mascherina e i guanti, la gente mi indica quasi fossi un marziano», ammette Sami Abu Salem. Un volta scoppiata l’epidemia, le armi a cui potrà appellarsi Gaza saranno sostanzialmente due: una popolazione molto giovane, quindi meno vulnerabile, e un clima molto caldo. Che forse, ma non è confermato, potrebbe rallentare il contagio. Il resto sarà solo questione di fortuna.