il Giornale, 12 aprile 2020
I 50 anni del Cagliari da scudetto
Claudio De Carli
Il Piero, come lo chiamano, ha iniziato a giocare con il nove sulla schiena, atipico come Hidegkuti, fa il centravanti arretrato, talmente arretrato che finisce per fare il libero, l’ultima delle cose che desiderasse. Sebbene fosse un ruolo profondamente italiano.
In realtà agli albori è un accorgimento tattico che usa Karl Rappan allenatore del Servette. Ha una buona difesa ma pensa si possa renderla ancora più impenetrabile, toglie un uomo a centrocampo, il più rude, e lo piazza dietro ai difensori pronto a intervenire in seconda battuta a ripulire l’area, ci prova, lo schiera e lo chiama sweeper, spazzatore. Roba da mezzi assassini, gran calci al football e a tutto quello che affiora attorno all’area senza star troppo a riverire l’eleganza. Ma poi l’evoluzione è tutta italiana per merito della scuola triestina, prima Nereo Rocco, poi Gipo Viani quando il ruolo si impreziosisce, dietro ci va uno che vede il gioco, primo compito resta quello di intervenire in aiuto ai difensori ma poi una volta conquistata la palla, deve avere la capacità di impostare il gioco, anzi, è lui che deve avviare l’azione. E proprio Viani è il primo a chiedere questo compito al suo centravanti e lo chiama libero.
Si, mi fai il libero, fa Manlio Scopigno a Pierluigi Cera, imposti l’azione ma prima devi conquistare la palla. Non mi piace, gli risponde Cera, e poi se proprio ci sono costretto lo faccio a modo mio! Come vuoi, gli risponde il tecnico, ma prima marchi anche tu come gli altri, e il primo che devi controllare è Niccolai, il più pericoloso.
Il dialogo passa alla storia, Comunardo Niccolai lo chiamano Agonia, gioca anche lui nel Cagliari assieme a Cera, fa lo stopper, è fortissimo, ma anche il primatista assoluto delle autoreti.
Scopigno non era uno che chiacchierasse molto, il Piero capisce e ci da dentro. Del resto il suo è un destino, non è mai riuscito a fare quello che desiderava. Il padre Ferruccio, classe 1900 e direttore della Mutua Popolare, Banca di gran prestigio a Legnago, è sempre pronto a scatenare l’uragano pur di non vederlo con un pallone tra i piedi, prima il buon nome della famiglia e gli studi, poi eventualmente il divertimento. Il Piero, quarto di otto figli, gioca nell’Olimpia, arriva il Verona e lo prende, cartellino da un milione e cinquecento mila lire, all’epoca un mucchio di soldi per un ragazzo, il dodici per cento spetta alla famiglia, ma suo padre lo rifiuta: i soldi si guadagnano lavorando, non a tirare calci al pallone. Testa dura, il Piero fa il suo esordio in serie A a 17 anni, poi in qualunque posto d’Italia si trovi subito in stazione, treno per Verona per essere puntuale in classe, senza neppure il tempo per una doccia. Si fa viva la Juventus, niente da fare, prima il pezzo di carta. Diventa ragioniere, un dirigente una bella mattina gli confida che in serie A ci sono una decina di squadre che chiedono notizie, lui fantastica: ma Cagliari no, dice, non se ne parla proprio, giocano due partite in casa e due in trasferta, quando ci torno a Legnago e la fidanzata quando la vedo? Ma a Cagliari ci va, punto e basta, sognava Milano, Torino e Roma, invece è su un pullman che quando gioca in trasferta viene preso a sassate e quando scende gli gridano pecoraio. Non gli andava niente, troppo tutto, e la fidanzata lontana, lontanissima. Il Cagliari poi appena nel 1964 promosso in serie A, proprio quando ci arriva lui, ogni partita una battaglia, dopo il padre l’incubo della retrocessione. In panchina Arturo Silvestri, e in Sardegna sta succedendo qualcosa di quasi impensabile per una regione agro-pastorale che si sta lentamente trasformando e la spinta, abbastanza ragionevolmente, la da la squadra che entra nell’elite del calcio nazionale. Gli industriali capiscono che un Cagliari all’altezza della situazione può diventare un importante volano per le loro industrie, il colosso chimico della Sir di Nino Rovelli, Angelo Moratti a Sarroch impianta una raffineria, migliaia di posti di lavoro, i pastori nelle fabbriche. Il calcio a Cagliari diventa sempre più qualcosa di importante, ad Andrea Arrica, grande amico di Moratti, riesce il colpo di portare sull’isola Angelo Domenghini, Sergio Gori e Cesare Poli, poi Enrico Albertosi e Mario Brugnera dalla Fiorentina, Manlio Scopigno che avvicenda Silvestri fa il resto. Lo chiamano il filosofo, detesta i ritiri, a centrocampo gioca a zona, briglie sciolte ai calciatori. Notte fonda, vigilia di una sfida determinante con la Juventus, bussa a una stanza dell’albergo, entra e ne trova otto a giocare a carte, bottiglie sparse, fumo da non vederci, chiede se può stare lì anche lui a guardare: posso fumare anch’io? Va da Mario Martiradonna e gli fa: oggi devi marcare Gianni Rivera, non sei in grado ma se ci riesci magari ti chiamano in Nazionale. Per Gigi Riva, al quale piaceva dormire fino a tardi, sposta gli allenamenti al pomeriggio, a Cera gli fa il famoso discorsetto quando il libero Beppe Tomasini si infortuna. Il Piero è dotato di intelligenza esagerata, fa già da allenatore in campo, rivoluziona il ruolo di libero e Ferruccio Valcareggi, anche lui triestino, lo chiama in nazionale per il Mondiale del ’70: ma non mi devi fare per forza il libero. Il Piero è strafelice ma Ernesto Castano è il passato e Sandro Salvadore si può raccogliere con il cucchiaino dopo una stagione estenuante con la Juventus a rincorrere il Cagliari. Il libero della Nazionale in Messico è lui, fresco campione d’Italia quando il 12 aprile di quell’anno il Cagliari batte 2-0 il Bari e si aggiudica con due giornate di anticipo lo scudetto, il primo e ancora l’unico della sua storia. Due settimane di festeggiamenti interrotti solo perché occorre costruire una stadio all’altezza per il debutto in Coppa dei Campioni, ma c’è un’intera isola in eccitazione cosmica, arrivano in Sardegna inviati da tutte le parti del mondo, vogliono capire, curiosare, scoprire come sia possibile che Inter, Milan, Juventus, Roma, Bologna e Napoli siano finite dietro. Tifare Cagliari è un pass per superare qualunque frontiera, un titolo onorifico, in sei vanno in Messico, Albertosi, Niccolai, Domenghini, Gori, Riva e Cera, quattro in campo a Italia-Germania 4-3 dell’Azteca. Partita del secolo? Fa il Piero. No, non sono d’accordo. Entusiasmanti solo i supplementari, noi dopo il gol di Boninsegna tutti a difendere. Poi quella finale con quel Brasile troppo forte, non saremmo mai riusciti a batterlo, forse se fossimo andati in vantaggio, ma non credo, facevano lanci di 50 metri e mettevano la palla sul piede, non correvano, camminavano e non ce la facevano vedere. Il Piero tutto suo padre, severo e reale, anche a costo di abbattere le leggende. Deve tutto al Cagliari, a Scopigno e alla sua intelligenza dentro al campo, lì si è trasformato, anche fisicamente, ha i tratti del volto tipici di quella terra, sembra uno nato lì, anzi, tutti erano convinti che fosse di quelle parti, pensare che sull’isola non voleva metterci piede. Sì, ma poi quella gente ti cambia, fa, otto undicesimi della squadra campione d’Italia sono rimasti a vivere sull’isola, qualcosa vuol dire.