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 2020  aprile 12 Domenica calendario

Ritratto di Saul Bellow

Il mio primo incontro con Saul Bellow avvenne in un albergo di New York che non esiste più, il St. Moritz. Lo avevo tormentato per avere un’intervista sulla cultura ebraica americana, e lui mi aveva convocato lì: prima voleva conoscermi. Era venuto a New York per un incontro del Pen, e lo trovai che stava parlando animatamente con Norman Mailer. Erano in disaccordo su tutto, come sempre, e discutevano in maniera opposta: Mailer aveva un atteggiamento aggressivo, muscolare, e tendeva a enfatizzare ogni problema, Bellow replicava con ironia, minimizzando quello che al rivale sembrava di assoluta importanza. Mailer, che prediligeva lo scontro diretto, impazziva per quel modo di fare, e Bellow continuava a sorridere, sminuire e poi colpire con una battuta fulminante. Sembrava di assistere al match tra il potentissimo George Foreman e il più leggero Mohammad Ali, e il paradosso vuole che sia stato proprio Mailer a raccontare in un libro memorabile perché fu Ali a trionfare. Quando i due si separarono, rimanendo ognuno sulle proprie posizioni, Bellow mi fece cenno di avvicinarmi, e volle sapere tutto di me: da dove venivo, cosa avessi studiato e perché ero interessato alla cultura ebraica. Intimidito, gli dissi che se non voleva partecipare mi bastavano alcuni consigli, e lui mi rispose, con il solito sorriso: «Chi vuole un consiglio in realtà vuole un complice». Quando la mattina dopo mi comunicò che aveva accettato, ripensai alla persistenza di quel sorriso: non era una provocazione, ma l’invito a condividere una scelta esistenziale dove l’ironia era l’ultimo baluardo di fronte alle inevitabili sconfitte della vita. 
Negli incontri successivi mi resi conto che un elemento fondante della sua straordinaria intelligenza era la capacità di mettere in discussione le proprie idee, e una profonda curiosità, che rivelava un’intima umiltà di fronte al mistero dell’esistenza: in questo era simile a Philip Roth, che lo considerava il suo mentore. Era appassionato di storia, e curioso dell’evoluzione politica delle vicende italiane, dove, secondo lui, tutto cambiava perché non cambiasse nulla. Aveva in mente Il Gattopardo, ovviamente, che conosceva bene, ma rise di gusto quando gli citai la battuta di Ennio Flaiano per cui «in Italia la situazione è sempre tragica, mai seria».
Da giovane aveva idee trotzkiste: ammirava il leader rivoluzionario al punto che si recò in Messico per incontrarlo, ma Trotzkj venne ucciso il giorno prima del suo arrivo. Crescendo assunse posizioni politiche conservatrici: riteneva aberrante ogni forma di controllo sull’individuo, che vedeva degenerare inevitabilmente nell’ottusità della burocrazia, o peggio, nella dittatura. Lo sdegno che provava nei confronti di istituzioni che prevaricano l’individuo è la linfa che lo ha portato a scrivere il magnifico Il dicembre del professor Corde, dove prende di mira il mondo accademico. Una volta gli chiesi cosa pensasse dell’Accademia Svedese e lui rispose con il più eloquente dei sorrisi, senza dire tuttavia nulla. Il giorno in cui andò a ritirarlo a Stoccolma fece un discorso che partiva da questa affermazione: «L’umanità non può sopportare troppa realtà, e neanche troppa irrealtà, troppo abuso della verità. Non pensiamo bene di noi stessi, non pensiamo in modo completo a chi siamo». Disse davanti ai reali svedesi che il ruolo dello scrittore è quello di «svegliare gli animi dal torpore», e quando un giornalista gli chiese se riteneva che gli avessero attribuito il premio come scrittore americano o ebreo rispose seccamente «me l’hanno attribuito come scrittore». Non aveva in grande considerazione i giornalisti, per la tendenza a semplificare e sensazionalizzare: anche la battaglia contro gli stereotipi era un modo per esaltare la libertà ed unicità del singolo.
«Siamo bravi solo in quello che amiamo», teorizzava, aggiungendo: «Nell’esprimere l’amore apparteniamo a un paese sottosviluppato». Ha sposato cinque donne, cercando, a suo modo di amarle tutte, e dall’ultima ha avuto un figlio e una figlia quando aveva ormai già ottantaquattro anni. È stato generosissimo con i suoi studenti, e le sue lezioni universitarie sono leggendarie: ha insegnato sino agli ultimi anni della sua vita, combattendo il post-modernismo e il femminismo. 
Non aveva alcun timore di testimoniare idee scomode e provocatorie, molte delle quali oggi verrebbero censurate con scandalo. Probabilmente è apocrifa la battuta «Chi è il Tolstoj degli Zulù o il Proust della Papuasia: sarei felice di leggerli», ma lo stile è tutto suo. Non risolveva tuttavia ogni cosa con l’ironia: nell’intimo, oltre alla curiosità, era consapevole dell’imprescindibile presenza del dolore, dell’insufficienza della ragione e della fragilità del corpo. «Ritengo che quello che ci viene detto dalla scienza sia insufficiente», mi disse a margine di un incontro, e poi aggiunse «…e insoddisfacente». Christopher Hitchens definiva la sua intera opera «un anelito di trascendenza», ed è illuminante un passaggio del Pianeta di Mr. Sammler: «molto spesso, e quasi quotidianamente, sento la forte sensazione dell’eternità».
Ho avuto il privilegio di parlare con lui di fede, e una volta mi disse «Credo in Dio ma non lo scoccio». Come sempre non si trattava solo di una battuta: «Non credo nelle suppliche contenute nelle preghiere - chiarì - le ritengo triviali: io vedo la preghiera come un atto di ringraziamento rispetto all’esistenza».Le fondamenta di questo sguardo religioso le aveva poste la madre Lescha, morta di cancro quando lui era ancora bambino. Era un’ebrea lituana fuggita a un pogrom a San Pietroburgo e poi in America: in Russia era benestante, ma nel nuovo mondo era stata costretta a ricominciare da zero insieme al marito Abraham. Nei momenti di debolezza, Lescha ricordava gli agi del passato, con la servitù e la dacia in campagna, ma ringraziava costantemente il Padreterno per averle offerto una seconda opportunità. Fu un insegnamento determinante, del quale rimase sempre grato: «Voleva che diventassi un rabbino e tra le tante cose che le devo c’è quella di avermi fatto leggere la Bibbia, il libro dei libri».
Grazie a lei aveva imparato a suonare anche il violino, che portò con sé quando la famiglia si trasferì da Lachine, dove era nato, a Chicago, città che ha celebrato nelle Avventure di Augie March in un incipit folgorante: «Sono americano, nato a Chicago – Chicago, quella tetra città – affronto le cose che ho imparato a fare, senza peli sulla lingua, e racconterò la storia a modo mio: primo a bussare, primo a entrare; a volte con un colpo innocente, a volte non tanto». Riteneva che la sua tetra città rappresentasse l’America più di New York, dove visse alla fine degli anni cinquanta: a Chicago si sentiva protetto, specie negli anni in cui i suoi libri non vendevano. Rimase sbalordito quando Herzog divenne un bestseller: non riusciva a capacitarsi che i lettori si fossero appassionati alla storia di un professore di mezza età che scrive lettere che non spedisce mai. 
Nessuno tra i grandi scrittori è riuscito a mescolare con analoga maestria il colloquiale con il filosofico e il profano con lo spirituale, generando una struggente epica del quotidiano. Ha amato profondamente l’America, che riteneva invece la realizzazione di una promessa: ne amava l’energia e l’ottimismo della volontà.