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 2020  aprile 12 Domenica calendario

L’isolamento di Francesco Molinari

Da quanto non le capitava di non giocare a golf in primavera? «Da una trentina d’anni, ne avevo 7 e cominciavo a tirare i primi colpi».  Anche Francesco Molinari, come tanti sportivi e un terzo della popolazione mondiale, vive rinchiuso nella sua casa di Londra. E per chi, come lui, era abituato a cambiare città, a volte continente, da una settimana all’altra, è un ribaltamento totale della vita. «Gioco sul Tour da 15 anni e ho sempre avuto un orologio nella testa: mi diceva mancano tre giorni a quel torneo, dopodomani devi andare a New York e via così. Ora quell’orologio è fermo. Ognuno vive in modo diverso questa situazione, è normale, io ci trovo anche aspetti positivi. Passo tanto tempo con mia moglie e i miei figli. La mia vita adesso è la mia famiglia ed è una novità che apprezzo. In Inghilterra siamo alla terza settimana di lockdown, il golf mi manca relativamente, anche se penso che, col passare del tempo, comincerà a mancarmi molto di più». 
Cucina, aiuta i figli a fare i compiti, legge, guarda la tv… 
«Faccio quello. Ho due bambini piccoli, che sanno come riempirti la giornata. Leggo libri di sport, guardo documentari. Per serie tv, film, romanzi seguo i consigli di mia moglie, è molto più ferrata di me sulla materia». 
E l’allenamento? 
«Ci si arrangia. Un’ora di lavoro fisico tutti i giorni, poi pratico in giardino. Ho comprato una rete, la tecnologia aiuta: il radar ti dice lunghezza e direzione dei colpi. È una situazione nuova, fai quello che puoi, di sicuro non è la stessa cosa». 
Di recente ha parlato di usura fisica. Si riferiva a qualcosa in particolare? 
«Negli ultimi mesi ho avuto problemi all’anca destra e alla schiena. Metti il ghiaccio, tenti di gestirli, ma devi giocare lo stesso. Ho 37 e alla mia età cominci a fare più fatica. Il calendario del golf è intasato, spesso vai in campo pur non essendo al 100 per cento perché giocare è il tuo mestiere». 
Quindi questa sosta può anche essere una buona cosa? 
«Può esserlo. Ti metti a posto fisicamente, pianifichi il lavoro, la strategia, fai progetti. Parlo tutti i giorni con i miei allenatori. Spero di poter verificare presto sul campo il lavoro che sto facendo». 
Mi scuso ma devo riportarla indietro di 12 mesi: ultimo giro al Masters di Augusta. Cosa sarebbe successo senza quella palla finita in acqua e cosa è invece successo? 
«Quella palla ha avuto un grande impatto sui miei ultimi dodici mesi, è innegabile. È stata una di quelle sconfitte che ti restano addosso, pesano. In quel periodo avevo fiducia, sicurezza, autostima. Quell’errore mi ha tolto tante certezze e si è visto nei mesi successivi. Cosa sarebbe potuto succedere? Chi lo sa? Però stare sempre in alto nel golf è quasi impossibile, le pause, i periodi negativi arrivano per chiunque, vanno messi in conto». 
Senza coronavirus questi sarebbero stati i giorni del Masters… 
«Aspettavo di tornare ad Augusta. Il ricordo di essere arrivato a un passo fa male ancora adesso, tornarci mi avrebbe dato la possibilità di eliminare le ultime scorie, in un modo o nell’altro. Il Masters si giocherà a metà novembre, spero di arrivarci bene, più in forma di adesso». 
Perdere fiducia è così importante per un giocatore di golf? 
«L’aspetto mentale nel golf è enorme. Ci sono periodi in cui stai bene, sei sicuro, hai poche cose nella testa e tutto riesce facile. Altri che sono l’opposto. Nel golf, poi, i margini sono minimi: la differenza tra un colpo eccezionale e uno mediocre la fanno i centimetri. Mi spiego. Nel calcio, durante una partita, un giocatore azzecca 90 passaggi, ne sbaglia 10 e non succede niente, per noi ogni palla, ogni colpo vale uno, sei sempre sul filo per quattro giorni e c’è tanto equilibrio. Nel tennis se arrivi in finale e perdi sei secondo, nel golf puoi essere primo per tre giorni e mezzo, giocare male le ultime 9 buche e ritrovarti 40°». 
Julio Velasco ha sempre detto che il problema non è tanto vincere, ma continuare a vincere. 
«E ha ragione. Non voglio passare per un montato, ma ho vinto un Open Championship e altri tornei importanti, nel 2018 per me sembrava tutto semplice, scontato. Velasco, che ha capito tutto, ha centrato la questione: per rimanere in cima devi reinventarti, aggiornarti, cambiare. Non hai alcuna sicurezza di vincere facendo sempre lo stesso lavoro, la stessa preparazione: a volte funziona, altre non funziona per niente». 
Che ne pensa del nuovo calendario dei Major? Niente Open Championship, ma Pga ad agosto, Us Open a settembre, Masters, come detto, a novembre. 
«Il Pga ad agosto mi sembra molto ottimistico. Si è cercato di salvare il salvabile, ma non è semplice giocare tanti grandi tornei così ravvicinati. Quello che mi auguro è che nel 2021 si possa tornare alla normalità». 
La vostra vita è fatta di viaggi continui. 
«Ci penso spesso, siamo globetrotter e il nostro stile di vita potrebbe cambiare. Viaggiare, spostarsi ogni settimana, adesso fai fatica a immaginarlo. Dovremo adattarci alla nuova realtà. È un grosso punto di domanda». 
La Ryder è confermata a ottobre, per ora. È stato più bello vincere a Carnoustie o vincere 5 incontri su 5 per l’Europa? In fondo il suo record in Ryder potrà essere solo pareggiato, non battuto. 
«Sono cose diverse. Se mi avessero detto: vincerai un Major, avrei risposto: ci sto lavorando. Se mi avessero detto: vincerai tutte le tue partite nella Ryder, avrei risposto: non diciamo assurdità». 
La Gran Bretagna era già uscita, l’epidemia rischia di lasciare segni profondi sull’Unione europea. Negli ultimi anni l’Europa che ha funzionato meglio è stata quella del golf. 
«È vero, l’Europa sta rischiando molto. La nostra squadra funziona perché, quando gli inglesi aprirono agli altri europei, campioni come Ballesteros, Langer, il nostro Rocca diedero un’anima a quella squadra. Noi siamo cresciuti guardandoli giocare per l’Europa in tv, e il nostro sogno era entrare in quella squadra. Hanno saputo costruire una chimica speciale, lasciare una traccia». 
La vostra stagione si è interrotta all’improvviso, il 13 marzo: eravate in Florida a giocare The Players. Diciotto buche il 12, poi tutti a casa. 
«Abbiamo giocato in un’atmosfera surreale. A me, italiano, sembrava ancora più assurdo, sapevo cosa succedeva nel mio Paese. Hanno pensato di continuare a porte chiuse, poi il presidente Trump ha annunciato la chiusura dei voli. Smettere e poter tornare a casa è stato un sollievo». 
Ha seguito il discorso della regina Elisabetta? 
«Certo. L’ho trovato bello, lucido, diretto: dopo tanti anni la regina è tornata a parlare al suo Paese dimostrando di essere ancora una fonte d’ispirazione. E non solo per i britannici». 
C’è chi sostiene che questa pandemia, quando sarà finita, ci consegnerà un mondo migliore. 
«Sarebbe bello, ma non ne sono convinto. Purtroppo». 
Altri sostengono che il virus devasterà lo sport. 
«Quando tutto sarà finito ci sarà una rinascita. Ci saranno meno soldi, ci si dovrà adattare ma questo toccherà ogni attività, non solo lo sport. Sono convinto che ci sarà una grande voglia di sport, di vederlo, di praticarlo. Il virus non potrà cancellarlo». 
Quando ricomincerete sarete tutti poco allenati: il favorito in questa situazione? 
«Un nome? Rory McIlroy».