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 2020  aprile 12 Domenica calendario

Roma, ferita e così bella

Se volessi scrivere una Lettera ai Romani, mi troverei al cospetto di san Paolo. Sì, fu usuraio; e la luce più atomica in tempi di pace lo fulminò a terra. Eppure, in questi giorni di apocalisse, estenuanti per il numero dei morti e per le tante parole e schermaglie dei virologi, se penso a Roma e dunque ai romani (giacché come laziali e romanisti sono in fondo una identità sola), non posso che accedere alla decapitazione del Santo la cui testa rimbalzò tre volte aprendo tre polle d’acqua. Vedo la sua Basilica, collocata a est, verso l’alba: colore del mare (Ostia è vicina), dell’acqua appunto e del Tevere. In tanti commenti fatti su Roma in quarantena non ho mai sentito nominare la parola Fiume, cioè Tevere. 
La Basilica, meraviglioso spazio vuoto. Sempre deserto. Senza nessuna ombra. Con i centinaia di ritratti di Papi che bucano dall’alto il pellegrino come altrettanti incorruttibili imperatori. Ecco, tra l’alba, il mare, il Tevere, le «Tre fontane», pare che questa Roma sia priva di virus, già libera per correre nella potente solitudine che la fonda. 
Prima che Roma riemergesse a mo’ di fondali luminosi e abbandonati nella loro bellezza, la città non si vedeva più. Era imbastardita, come ricoperta da una colla nerastra. Dominio di orde di turisti in bottiglia di plastica e superbi o scimuniti nell’attraversamento delle strisce pedonali. Avevo l’impressione che per vedere i super favolosi palazzi e le super rovine trattate come reliquie, bisognava cliccare su l’iPhone; oppure distendere la guida turistica. Insomma Roma e i romani si abbracciavano in un mandarsi al diavolo a ogni minuto. Per dirla con Carmelo Bene, era come il Colosseo: «un enorme molare cariato». 
Roma e i romani erano al tubo del gas. Ora invece, chissà, la mitologia barbara e sacra, costruita dalla feccia dei popoli latini che avevano bisogno dei Sette Colli e del delta di un fiume; gli stessi che poi si trapiantarono a una sterminata plebe papalina golosa di abbacchio, trippa, coda alla vaccinara, bucatini all’amatriciana, ci dà la chiave per leggere la rinnovata «Grande bellezza». 
Va premesso che l’idea mi è sorta dalla mia allieva che chiamo Bambolina Rock e che si trova qui con me ai Castelli (Colli Albani) in quarantena. La ragazza ha dipinto metà di tre gusci di noci che sembrano tre cesti. Inoltre mi sbatte sul viso un dipinto su tavola di Paola Gandolfi il quale mostra la mappa di una probabile Roma che ha sulla testa dei quartiere pezzi anatomici di una donna mentre una vena azzurra (il Tevere) serpeggia tra i caseggiati. Fui io stesso vent’anni fa a dargli il titolo: Geografia degli Dèi che verranno. Ma non voglio divagare. Semino tracce e non prove. 
Rea Silvia sappiamo che diede alla luce Romolo e Remo. Però essendo una sacerdotessa dovette disfarsene affidando i bimbi, futuri fondatori della città di Cesare e di Pietro, alle acque del Tevere usando una o due ceste. Scoperta fu murata viva. Siamo al dunque: oggi Roma e i romani sono murati vivi come colei che diede i natali agli illustri discendenti. Roma in questi giorni non è una «Grande bellezza», è una città murata nel suo muto silenzio. Questa reclusione a cielo aperto non è altro che una cura, una colossale iniezione vitaminica per tornare sul serio a ciò che fu. E così anche i romani seguono il destino della città: non a caso anch’essi sono «murati vivi». Soffrono a livelli e per conio e censo diversi, però anche loro si stanno curando da quell’abbraccio che soltanto un mese fa era necrofilo. 
In realtà la bellezza di Roma non mi ha mai sfiorato. Il suo fascino ambiguo, sfuggente, ermafrodito è unico al mondo. Questo sì. Ella era giusta quando era sporca il giusto. Quando era malandrina, rinchiusa come adesso nei suoi rioni. Strafica di notte. Come nel mistero sensuale della donna o strega dello sceneggiato: Il segno del comando. Con la canzone di Lando Fiorini: Cento campane. La notte quindi è la bellezza. Con i fantasmi che ti eccitano restando lievi. Ora non è più la città di Caravaggio: taverne e postriboli sono vietati. Non lo è neppure per i fantasmi dei criminali o dei grandi attori. Anzi, vorrei che non lo fosse più. Roma è meravigliosa da neo-realista. Con i corpi dei plebei che sporcano le quinte barocche. Spero torni così. Un passo indietro per farne uno avanti. 
Riccardo, che pesa 108 chili e sta al Quadraro, mi ha inviato questa cosa: Roma è potere Roma è onore Roma non se piega davanti al padrone. Roma è il cupolone è l’ardore e miseria e l’orgoglio di ogni rione. Roma risorge se specchia e se fa ‘na risata. 
Antonio Marinucci, il vecchio drago di san Giovanni, mi invia: Roma è come una bella donna che nessuno può prendere. Aldo Marchetti: Ma quale bellezza!? Senza i romani che facevano er monnezzaro Roma è niente. Maronna Mafalda, avvocato, mi dice: Questa tregua mi ricarica. Sto bene. Sembra che la pausa fosse necessaria. Ci stiamo riappropriando di noi e di Roma.
Rossella Fumasoni, artista, mi racconta che da San Lorenzo dove abita attraversa la città tutti i giorni per andare a Bravetta ad accudire sua madre. Mi dice che l’ha colpita vedere il bar «Castellino» a piazza Venezia chiuso. 
Adesso immagino che a Corviale giocano a pallone per le scale; a San Basilio le nonne toste ammassano le fettuccine; all’Idroscalo di Ostia si passano lo smalto e la ceretta le ragazzine; e le madri la tinta per i capelli. 
Roma non è un set, neanche stavolta è il film di Sorrentino. È di Bernini, certo. Sta là piazza Navona e il Colonnato di san Pietro. Alcuni hanno scritto sui social che non avevano mai visto a Roma un cielo tanto bello. Non è vero. Anche il cielo più bello è «sepolto vivo» come la Rea Silvia. È di Michelangelo. È nella Cappella Sistina. Ma il Tevere è acqua. E l’acqua scorre come il sangue che si ossigena. Roma infatti vive e guarirà per il suo fiume etrusco.