Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 12 Domenica calendario

Le code per il cibo negli Usa

Gli operai delle catene di montaggio dell’auto rimasti disoccupati o il cui salario orario è sceso in pochi anni da 58 a 18 dollari l’ora. Gli studenti universitari delle famiglie meno abbienti che, anche con una borsa di studio, sono costretti a saltare diversi pasti perché i pochi soldi in tasca servono anche a pagare l’alloggio e le altre spese. Il sindaco di New York che ha rinviato oltre il dovuto la chiusura delle scuole per il coronavirus nel timore di condannare alla fame quel 30-40 per cento del milione di studenti della città per i quali quelli consumati in classe sono gli unici pasti veri della giornata.
Raccontiamo da anni storie di impoverimento del ceto medio americano, di un aumento delle diseguaglianze che fa scivolare nel sottoproletariato famiglie che un tempo riuscivano, a volte con un solo stipendio, a garantirsi una vita decente, sanità e studio dei figli compresi. La pandemia che sta paralizzando l’economia anche negli Stati Uniti costringendo a una disoccupazione non si sa quanto momentanea decine di milioni di lavoratori (gli oltre 16 milioni che si sono dichiarati nelle ultime tre settimane sono solo una parte del fenomeno), sta funzionando da drammatico acceleratore di questo disastro sociale. 
E le immagini dei nuovi poveri che fanno code infinite a bordo di veicoli a volte anche lussuosi, simboli di un benessere tramontato, per ottenere qualche chilo di cibo, diventano all’improvviso la testimonianza visiva di questo drammatico fenomeno. Foto e filmati che arrivano da ogni angolo d’America: da Pittsburgh in Pennsylvania a San Diego in California passando per San Antonio in Texas, le food bank, le istituzioni filantropiche che distribuiscono gratuitamente prodotti alimentari sono al lavoro con un’intensità mai vista prima. 
Le banche del cibo distribuiscono da sempre derrate alimentari agli indigenti attraverso le food pantries, una sorta di mense dei poveri. Ma ora che decine di milioni di americani sono rimasti senza lavoro e senza reddito, i bisogni si sono moltiplicati: e allora si consegna direttamente cibo alle famiglie col drive in: mettendo gli scatoloni pieni di pasta, conserve, vegetali in scatola e, a volte, anche freschi, nei bagagliai delle vetture.
Le immagini delle file di San Antonio, in Texas, hanno fatto il giro del mondo: seimila veicoli in coda per ricevere 500 tonnellate di cibo. Molti di questi nuovi poveri arrivano con grossi Suv e fuoristrada scintillanti. Finti poveri? No, le storie che raccontano sono quelle di gente che aveva un buon impiego, ma nessun risparmio da parte: da un giorno all’altro si è trovata senza lavoro e senza soldi. Niente liquidazione, mentre gli assegni dell’assistenza federale votati dal Congresso ci metteranno settimane per arrivare (e non sono per tutti). Per qualche mese dovrebbero ricevere un’indennità di disoccupazione, ma anche lì ci vorrà tempo e l’importo è limitato, non comparabile col reddito perduto.
Quasi tutti hanno ancora l’auto, spesso di valore, e usano l’aria condizionata: fuori sono 30 gradi, il sole texano di mezzogiorno picchia e la benzina costa molto meno dell’acqua minerale (mezzo dollaro al litro, metà di un’acqua da fonte artesiana Usa, un quarto della San Pellegrino).
Non ci sono particolari vincoli, l’indigenza è autocertificata. Il cibo che si riceve, in genere sufficiente per preparare almeno 40 pasti, deve bastare per un mese. A San Antonio la banca del cibo fa due distribuzioni a settimana, utilizzando i parcheggi di impianti sportivi ora inutilizzati, con l’obiettivo di aiutare decine di migliaia di famiglie. Anche a Pittsburgh la food bank filantropica va avanti grazie all’aiuto, oltre che di privati e imprese alimentari, anche dei Penguins, la locale squadra di hockey: mette a disposizione il suo palasport e i relativi parcheggi, ora che la stagione agonistica è sospesa. Tante storie simili, tra dolore e sorpresa. Come quella di Yolanda Benvides che racconta in tv: «Negli Stati Uniti per decenni ho fatto una vita agiata. Per riconoscenza ho sempre donato. Ora, a 63, all’improvviso devo chiedere».