Corriere della Sera, 12 aprile 2020
Il caldo fermerà il coronavirus?
Col passare delle settimane, la speranza che il clima caldo (e umido) aiuti a contenere i contagi da coronavirus si fa più pressante, ma ancora non ci sono evidenze scientifiche che ci aiutino a sostenerlo, bensì solo alcune elaborazioni statistiche. Lo stesso sito del ministero della Salute italiano nella sua pagina di contrasto alle fake news affronta l’argomento scrivendo: «Non esistono evidenze scientifiche che esporsi al sole o vivere in Paesi a clima caldo prevenga l’infezione dal nuovo coronavirus. I casi di Covid-19 sono stati registrati anche in Paesi con clima caldo».
Cosa sono gli studi «osservazionali»
Essendo una pandemia, il Covid-19 si è in effetti diffuso anche nei Paesi caldi e in ogni regione del mondo (tranne l’Antartide), anche se con tassi di crescita differenti. Gli studi che convergono sull’ipotesi che il virus SARS-CoV-2 preferisca un clima fresco e asciutto rispetto a uno caldo e umido, sono molti, ma prima di tutto tali ricerche perlopiù non sono ancora pubblicati su riviste scientifiche perché mancano di revisione «tra pari», in secondo luogo si tratta di «studi osservazionali». Osservare una correlazione tra clima e numero di casi confermati non basta per dire che i due fattori sono l’uno la causa dell’altro, perché le associazioni potrebbero derivare da variabili di altro tipo. Inoltre, nel determinare l’andamento dell’epidemia contano anche le risposte dei governi e l’aderenza alle misure decise da parte della popolazione. Per spiegare la minore prevalenza di casi in Africa si è pensato non solo al clima, ma anche alla mancanza di test diagnostici da sottoporre alla popolazione e per capire come mai gli Stati Uniti abbiano così tanti infetti si può pensare alla densità di popolazione ma anche alle rotte del contagio, visto che pare che il genoma del virus indichi una provenienza europea dei casi zero.
I casi aumentano sotto i 22 gradi
Fatta questa premessa, citiamo alcune tra le ricerche più recenti sul tema. All’Università del Colorado a Denver hanno incrociato i dati sulla popolazione e la latitudine con il numero di casi di Covid-19 e hanno riscontrato che i positivi (come sono riportati dai dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità fino al 27 marzo) mostrano una prevalenza maggiore in regioni a una latitudine di 30 gradi o superiore, prevalenza non spiegata dal numero assoluto di abitanti che popolano quelle stesse zone. Altre comparazioni mostrano una significativa riduzione della frequenza dei casi quando la temperatura media è superiore a circa 22 gradi Celsius. Alla fine dell’articolo (pubblicato il 6 aprile) l’autore chiarisce però che lo studio non è una dimostrazione, ma uno sprone per ulteriori ricerche.
Non si applica per una pandemia
Un’altra pubblicazione in attesa di revisione dell’Università di Princeton (online dal 7 aprile) va in un’altra direzione: mostra come le variazioni di umidità possono essere importanti quando un virus si diffonde in un solo Paese, ma quando l’infezione diventa pandemica (come SARS-CoV-2), il fattore ambientale è in grado di determinare solo modesti incrementi nel numero di casi e nella durata dell’epidemia. Gli autori dello studio spiegano che, in assenza di efficaci misure di controllo, è probabile che nei prossimi mesi si assista a un aumento dei casi significativo anche in Paesi con clima caldo-umido, indipendentemente dal comportamento del virus rispetto a variabili come umidità e temperatura.
Cosa succederà da giugno
Una ricerca dell’Università Statale di Milano datata 31 marzo mostra come i tassi di crescita del Covid-19 a marzo abbiano raggiunto il picco in regioni dell’emisfero settentrionale con temperature medie di 5°C e umidità relativa di 0,6-1,0 kPa. Gli autori hanno costruito tre cartine (sopra, ndr) con anche la previsione per giugno e settembre. A giugno particolarmente a rischio di una crescita giornaliera più sostenuta (in giallo) sono i Paesi dell’emisfero australe, mentre l’Italia passerebbe dalla fascia peggiore alla successiva, quella verde (sia a giugno che a settembre).
Numero massimo tra i 3 e i 13 gradi
Infine un’analisi del 19 marzo sui dati raccolti dalla Johns Hopkins University effettuata dal MIT di Boston evidenzia come il numero massimo di casi da coronavirus si è verificato in regioni con temperature comprese tra 3 e 13° C. Al contrario, Paesi con temperature medie superiori a 18° C hanno visto meno del 5 per cento dei casi totali. Nessuno di questi articoli, lo ricordiamo, ha ricevuto una revisione scientifica cosiddetta «da pari», da parte, cioè, di altri scienziati che sottopongano i risultati a controllo, e gli studiosi concordano sul fatto che, anche se possiamo aspettarci modesti ribassi nella contagiosità di SARS-CoV-2 in condizioni climatiche più calde e umide, non è ragionevole aspettarsi che questi ribassi da soli rallentino la trasmissione abbastanza da abbassare la curva. Non sappiamo nemmeno quale sia eventualmente il fattore ambientale decisivo: la temperatura, l’umidità o entrambe. Quello che possiamo dire, ma vale per tutti i virus a trasmissione aerea (come per l’influenza), è che gli spazi chiusi maggiormente affollati in inverno facilitano il contagio tra persone e che le vie aeree (specialmente nasali) col freddo sono solitamente più vulnerabili al passaggio dei virus.
Il peso del clima e del contenimento
La natura e il clima da soli non basteranno a fermare la pandemia di Covid-19 e questo è valso anche nelle precedenti stagioni epidemiche: quello che conta e serve davvero sono le politiche di contenimento, il distanziamento sociale, i farmaci che contrastano la malattia e il vaccino. La strada da percorrere quindi non cambia: in mancanza di certezze l’isolamento e le precauzioni funzionano, al di là delle bizze del tempo. Se poi anche il caldo aiutasse, meglio, a patto di non usare la bella stagione come scusa per non seguire le indicazioni di sanità pubblica.