Corriere della Sera, 11 aprile 2020
Il coprifuoco sulla via Emilia
SAN ROCCO AL PORTO (lodi) Non sono numeri: la signora Eugenia, deceduta in data 2 aprile; la signora Rina, 28 marzo; la signora Carla, 31 marzo; la signora Gabriella, 2 aprile; il signor Luigi, 29 marzo; il signor Lino, 20 marzo; il signor Mario, 18 marzo; la signora Maria, 18 marzo; don Gianni, 20 marzo.
Tre file da tre, non un centimetro libero tra un annuncio funebre e l’altro, sul pannello all’altezza di via Dosso, in località San Rocco al Porto, ultimo paese della provincia di Lodi prima del Po e di Piacenza, conclusione del tratto regionale della strada statale 9, ovvero la via Emilia. Cinquantuno chilometri che fino alla pandemia ospitavano ventimila veicoli al giorno, come ricorda uno sporco lenzuolo appeso a Casalpusterlengo. Oggi passano soltanto i trattori di cascine per filosofia non attirate dai forestieri e dalla conversione in agriturismi.
Rispetto allo stesso periodo d’un anno fa, San Rocco al Porto ha registrato un aumento del tasso di mortalità del cinquecento per cento, secondo i dati Istat di fine marzo; sono dati da aggiornare, gli ospedali di Codogno e Lodi restano affollati di malati. In settanta minuti, a partire dalle undici, nelle vie del paese non abbiamo incontrato nessuno. Nessuno. Qui avevano chiesto di venire inglobati nella prima «zona rossa» d’Italia, che iniziava a pochi chilometri e comprendeva dieci Comuni, spesso amministrati da giovani sindaci che hanno tenuto botta. Da queste parti si è vicini di casa anche stando a distanza, più d’uno ha parenti e dipendenti della ditta dall’altra parte, e le telefonate ai tempi della quarantena, quello che da là raccontavano, pianti laceranti da neonati perché «ci stanno lasciando crepare nei nostri letti, neanche ci vengono a prendere», hanno progressivamente convinto che forse è stato meglio così. Senonché, le comunità rimaste fuori dal perimetro della quarantena hanno avuto anche perdite maggiori. Da allora, si rimane trincerati. Il sole picchia, il Grande Fiume che una volta era all’orizzonte e ora s’è ritratto porta soltanto le zanzare, e tutto appare come quei villaggi abbandonati del vecchio West. Non fosse che l’assenza di vento non fa sbattere le imposte e non muove le tende sui balconi dove le scritte «andrà tutto bene» sono state sostituite da statue di Madonne con rosari al collo.
A salire verso Milano, sulla via Emilia ci sono Guardamiglio, con la pattuglia dei carabinieri appostata alla rotonda, poi Fombio. In un breve spazio tra l’asfalto e un giardinetto privo di cartacce e mozziconi, la via del centro di Fombio alterna l’ennesimo pannello di annunci funebri e il monumento ai valorosi che il 26 aprile 1945 s’immolarono davanti ai nazifascisti salvando la comunità; oltre la strada, sulla facciata della scuola, una targa elenca i caduti nella Seconda guerra mondiale. I caratteri sono piccoli, il cancello è chiuso. Quanti sono per l’esattezza? A Fombio, il virus ha provocato il 900 per cento in più dei decessi.
La strada statale 9 è capannoni industriali, palazzi sushi & slot (risparmi sul cibo ma spendi alle macchinette), bar aperti ventiquattro ore su ventiquattro, trattorie a menù fisso, motel con fuori la coda di macchine da Milano, e piccole e grandi ditte di arredi, componenti sanitari, centri commerciali. Un’infilata di spazi chiusi, privi d’annunci sulle vetrine sia dell’interruzione causata dalla pandemia (non c’è mica bisogno di specificarlo) sia di una riapertura (s’ignora se, quando e come). Un anziano, su una bici da corsa blu marca Colnago, sta piantato nello slargo di un negozio di giocattoli; braccia conserte, mascherina che copre i baffoni: «Conto le macchine, il tempo passa».
Ai margini della via Emilia, pennuti planano sulle carcasse di topi, gatti, nutrie, lepri, e gatti che non avevano più padroni o avevano padroni che stanno attaccati a un respiratore; altri pennuti volteggiano sopra i prati. I cartelloni della pubblicità sono vuoti, tranne due: quelli della Regione Calabria, a San Giuliano Milanese, che esorta ad andare alla scoperta di natura incontaminata e mare cristallino, e la pubblicità di un dentista sardo che, all’altezza di Vizzolo Predabissi, propone impianti dentari a basso costo. L’unico problema è che lo studio sta in Moldavia, comunque raggiungibile in «tre ore di volo». Coi blocchi dei movimenti, il Sud Italia sembra lontano quanto l’Est Europa.
Le margherite hanno conquistato il prato del cimitero di Casalpusterlengo. Come un po’ ovunque, cimitero chiuso. Col pennarello, uno ha scritto: «Fate schifo». Un ristoratore della zona tiene il conto: «A oggi, hanno perso la vita cinquantuno amici. Cinquantuno». A novembre e dicembre, giravano polmoniti strane, pesanti, però nessuno ci fece caso, non i malati, non i dottori, non le istituzioni. A inizio gennaio, alcuni imprenditori della zona che hanno affari con la Cina hanno evitato di viaggiare. Dice uno: «Avevo in programma di partire il 14. Ho saputo questo: appena atterrato dovevo comunicare l’hotel, andarci spedito, chiudermi in isolamento per due settimane, fare il tampone, nel caso fosse negativo avevo il permesso di uscire ma sempre comunicando gli spostamenti, quindi, finito tutto quanto, dovevo tornare in hotel, rifarmi quattordici giorni di quarantena, di nuovo il tampone, eccetera... Ho lasciato perdere».
Nei paesi, capannoni di artigianato a conduzione familiare. Nuclei di tre generazioni che vivono nella stessa casa, ognuno sul suo piano. Siccome le loro fabbriche non sono nell’elenco di quelle «ammesse» per operare, debbono attendere. Obiezione: «Ma se già viviamo insieme, qual è il rischio?». Le commesse di lavoro si sono accumulate nel deposito e vanno trattate, mentre i mutui continuano a passare. Inesorabili. Si pensava che sarebbero stati sospesi. A maggior ragione per i reduci della «zona rossa». Macché. Idem i prestiti delle finanziarie. I lodigiani non sono abituati a urlare, ma sono imbestialiti, ed esternano la frustrazione nelle quotidiane gite in filiale dove spesso tra gli impiegati hanno parenti e conoscenti stretti. Sono imbestialiti specie a ripensare a quelle settimane. A quando all’ospedale di Lodi il personale doveva imboscare le mascherine, manco fossero armi di contrabbando, perché i colleghi del turno dopo ne avessero una dotazione minima. Aspettavano migliaia di mascherine, decine di migliaia. Un giorno ne consegnarono ventiquattro, l’indomani trentadue... Avanti a multipli di otto, come le tabelline alle elementari. Sono anche terre di allevamenti, queste. Un allevatore dice: «Davanti a un virus e senza farmaci, i veterinari ripetono di tenere monitorata la febbre degli animali, e di sperare che cadano i più deboli e gli altri si immunizzino. Con noi umani hanno fatto uguale come con le bestie. Nessuna ambulanza si è caricata malati per giorni. Al telefono chiedevano febbre ed età, facevano due conti e decidevano...».
Il coprifuoco della via Emilia. Un coprifuoco autoimposto, in questa primavera. Nelle piazzole, le sedie vuote delle prostitute; più dietro, sulle stradine, i materassi. Tornando verso il Po, libere le piste ciclo-pedonali; liberi pure gli angoli utilizzati dagli spacciatori. Rapportato con Milano, lo scenario della strada statale e dei paesi che ne vengono attraversati racconta disciplina, spirito di sacrificio, il rispetto delle regole. Forse è solo la coda della paura. Il terrore. Come dice un medico, «chi ha vissuto l’apocalisse si può rendere conto di cosa diavolo sia il virus, gli altri no. Non trovo altre spiegazioni nel vedere che in città la gente ha mollato gli ormeggi». È l’assuefazione alla morte, o per appunto l’averla schivata. In settimana, a San Rocco al Porto il Comune ha riaperto il cimitero, per consentire preghiere ravvicinate e la posa dei fiori. Raccolti nei campi da mogli, figli e fratelli, rapidi e furtivi.