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 2020  aprile 11 Sabato calendario

Biografia di Eugenio Borgna raccontata da lui stesso

Viviamo tempi sventurati, e la sventura rende il tempo vuoto. Come le città. Come gli sguardi e le anime. Riassumo un pensiero che Eugenio Borgna ha ripreso da Maurice Blanchot. A sua volta attratto dal modo in cui Simone Weil si lasciò coinvolgere da quella condizione ostile e tragica che a volte ci investe. Dice Borgna: «La sventura ci priva di noi stessi, ci priva di quell’Io che è il nostro naturale sostegno. È come se nella sventura il tempo si frantumasse in mille schegge che si conficcano in un presente improvvisamente senza più storia né divenire. Sì, la sventura ci fa perdere il tempo e ci fa perdere il mondo. E ci fa sanguinare l’anima». Non ce l’aspettavamo. Non credevamo che certe parole allarmistiche avrebbero trovato consistenza e pena nella dura realtà. E ora? Chiedo a Borgna in una lunga conversazione telefonica. Mi ascolta, paziente. La voce è gentile. Un po’ stanca. Ha appena pubblicato una sorta di racconto di sé, Il fiume della vita (edito da Feltrinelli). E mai come in questo momento quel fiume appare difficile da risalire o attraversare.
Ci sono stati momenti difficili nella sua vita?
«Certo, come tutti anch’io ho vissuto frangenti in cui la mia esistenza è stata messa a dura prova. Posso dire che non c’è stata età che non mi abbia esposto alle insidie, agli imprevisti, al senso di inadeguatezza. A cominciare dall’infanzia».
Vissuta come?
«All’ombra delle malattie, di cui ho sofferto, del clima politico allora esistente, al quale mio padre non ha mai aderito, e della guerra. Si tratta di un’età fragile dove un nulla che accade si amplifica a dismisura».
Più che fragile mi sembra un’età estrema.
«Non lo è stata per me, per la mia famiglia molto cattolica e molto unita nei suoi componenti: sei fra sorelle e fratelli. La cosa che ricordo è l’affacciarsi del conflitto che l’antifascismo di mio padre faceva presagire».
Come?
«Sotto forma di pericolo, ma anche di scelta ideale. Mio padre decise di entrare nella Resistenza con tutto ciò che una tale scelta avrebbe provocato nella vita di mia madre, mia e dei miei fratelli. A cosa ci avrebbe esposti? Nell’agosto del 1944 ci rifugiammo in un piccolo paese sulle colline che circondano il lago d’Orta. I tedeschi erano una minaccia concreta. Tra il 1943 e il ’44 l’Italia sembrava un immenso laboratorio della paura. Cosa avremmo fatto? Come ce la saremmo cavata? Ho sotto gli occhi il diario che mia madre scrisse in quel periodo. Ed è un perfetto termometro delle emozioni che si potevano provare».
Cosa c’era scritto?
«Del momento assolutamente difficile che si stava vivendo. Quando mio padre le annunciò che era giunta l’ora di agire e che era un dovere prendere parte alla lotta della liberazione, la prima reazione della mamma fu negativa. Gli disse: hai una famiglia, sei figli, una moglie. Come puoi pretendere di dedicarti alla Resistenza? A noi chi penserà? Lui rispose: in frangenti del genere viene prima l’idea poi la famiglia. Lo accusò di egoismo. Poi comprese che l’ideale della libertà era il bene più prezioso. Che c’è un tempo in cui occorre ribellarsi alle leggi ingiuste».
Immagino che quel diario lei lo avrà letto molto dopo, ma in quel momento cosa avvertiva?
«La mia adolescenza fu segnata da un senso di infelicità dettata dall’insicurezza e dalla fragilità. Non credo però che la fine di quel 1943 era così diverso per molti altri ragazzi. Si viveva nella condizione peggiore, con l’angoscia che i tedeschi requisissero ogni cosa e ci trascinassero prigionieri in Germania. Tutto questo si è rispecchiato nella fase successiva della mia vita: soprattutto nella scelta incerta di cosa studiare all’università».
Incerta perché?
«Era naturale che scegliessi legge, sul solco della professione di mio padre. Ma non avevo le attitudini necessarie. Preferii medicina sulla scia di un fratello di mio padre, medico di famiglia, al quale ero molto legato. Non che le idee fossero chiarissime, ma medicina mi sembrò una facoltà concreta, terrestre. Ed è il motivo per cui se avessi avuto il dono delle mani avrei fatto il chirurgo. Ma ero senza vere attitudini pratiche. Mi rifugiai perciò nella psichiatria».
Una scelta rischiosa per una natura emotiva come la sua.
«Avendo fatto della psichiatria una disciplina nella quale ne va del vivere o del morire, l’onda dell’emotività è stata per me un utile apporto».
Ma perché scegliere di lavorare in un manicomio? Perché a un certo punto appena trentenne decide di entrare nell’ospedale psichiatrico di Novara?
«Fu una scelta radicale lasciare la clinica universitaria di Milano, benché fossi già libero docente, per calarmi in una specie di luogo perduto. Allora il manicomio di Novara era diretto da Enrico Morselli, uno straordinario psichiatra che teorizzava una cura fortemente fondata sulla relazione personale. Fu questo approccio ad attrarmi. Entrambi dicevamo della follia cose che quasi tutti gli psichiatri italiani non vedevano».
Cosa non vedevano?
«La profonda sofferenza, di qui le cure brutali ed errate. Devo aggiungere che negli stessi anni, con un’intuizione straordinaria, Franco Basaglia — a Gorizia e poi a Trieste — dimostrava come solo una psichiatria fondata sulla relazione personale fosse in grado di cambiare il destino della follia e del suo modo di conoscerla, consentendo di giungere alla chiusura dei manicomi».
Lei ha diretto il reparto femminile del manicomio di Novara. C’è una differenza rispetto al maschile?
«La follia femminile ha effettivamente qualcosa di diverso, come se le ombre del dolore scendessero meno brusche. La creatività sembra più pronunciata. Dalle mie pazienti ho molto imparato in termini di ricchezza emotiva, di sensibilità, di gentilezza e di tenerezza».
Le è capitato di provare un senso di impotenza o di disagio davanti a una paziente?
«Sì, ci sono condizioni di angoscia e di disperazione che inducono le pazienti e i pazienti a immergersi in un silenzio che dovremmo saper accogliere nella sua fragilità, non sapendo mai bene se tacere o se dire timidamente qualcosa. Una sola parola sbagliata e può essere la fine».
La psicoanalisi codifica il rapporto con il denaro. Il paziente sa che una seduta costa e ci sarà una parcella da pagare. Lei dice: come si fa davanti a un dramma sconvolgente a chiedere un compenso?
«La psicoanalisi ha avuto il merito di aprire le sconfinate frontiere dell’interiorità. Ma per Freud l’interiorità si arrestava davanti al discorso sulla follia, nella quale si rispecchiano angoscia e tristezza, inquietudini dell’anima e ossessioni, esperienze allucinatorie e deliranti. Un’ora, ma talvolta non basta, di un colloquio con una persona immersa negli indicibili dolori dell’anima, alla febbrile ricerca di una parola salvatrice, non si concilia con una parcella: così è stato nel manicomio in cui lavoravo o in quelli dove ha operato Basaglia. Un paziente non è un cliente».
Che definizione darebbe della follia?
«Il linguaggio della psichiatria non può fare a meno delle metafore, per questo penso che la follia sia la sorella infelice della poesia».
Della follia si ha paura.
«Perché non se ne percepiscono i confini della sventura e del dolore dell’anima in cui essa si rispecchia».
Eppure la paura sembra aver fatto oggi un salto ulteriore. Ne abbiamo vissute di strumentali, come quella verso il migrante, ora viviamo quella concreta del contagio.
«La paura è come un grande albero, dal quale germogliano molti rami, ciascuno con una sua conformazione: questa nostra ultima paura è ancora più temibile, la causa è inafferrabile. Nasce, può nascere, da ogni luogo e non è facile e talora impossibile difendersi. Alla paura del coronavirus si aggiungono altre banali paure che ne accrescono le ombre, ne aggrovigliano le risonanze emozionali e le convertono in panico».
Con quali conseguenze?
«Si fa fatica a vedere un futuro, agonizza la speranza che ne è l’emblema e si scivola nel gorgo di un disperato individualismo che ci rende estranei gli uni agli altri e che non dovremmo ingiustamente esasperare».
In realtà stiamo assistendo a momenti di grande solidarietà, qualcuno parla di neo-patriottismo.
«È assolutamente così, perché l’emotività può essere appunto convogliata verso una relazione con l’altro di apertura e non di ostilità».
Che idea si è fatto di questa crisi sistemica che sembra divori ogni aspetto della nostra vita comune?
«Il coronavirus nella sua improvvisa insorgenza non ha consentito di prepararci al suo arrivo, allo sconvolgimento conseguente, che oggi, come lei dice, divora ogni aspetto della nostra vita: dimostrandone in un istante la fragilità che non volevamo vedere nella sua invisibile presenza. Ne dovremmo prendere coscienza e ripensare i modelli di comportamento che abbiamo avuto in passato, ridando significato a parole come gentilezza, sensibilità, tenerezza. Ne saremo capaci?».
Qual è il pericolo?
«Sono in pericolo sono l’autonomia e la spontaneità delle persone. A causa della costrizione vissuta come impedimento e non come precauzione alla salute. Del dilagare del sospetto e degli egoismi e, soprattutto, del venir meno dell’attenzione verso l’altro».
Come definirebbe questa attenzione?
«Mi vengono in mente alcune pagine di Cristina Campo, quando definisce l’attenzione come l’intesa fra gli esseri e l’opposizione al male. Per lei ogni errore umano non è in essenza se non disattenzione».
Occorre avere cura del proprio come dell’altrui tempo.
«Tra i risvolti di questa crisi c’è la riscoperta della lentezza, del tempo lento, molto più vicino a quello interiore. Sono giorni questi in cui la solitudine imposta dall’emergenza potrebbe indurre giovani e non più giovani a riflettere sul senso della vita e a riscoprire proprio quel tempo lento o interiore che consente di ridare senso al passato sottraendoci alla famelica egemonia del presente».
Mai come in questo momento si ripensa alla vecchiaia, esposta al contagio più di altre fasce di età. Lei come sta vivendo questo momento?
«Con rassegnazione e senza una particolare angoscia personale, ma con la dolorosa partecipazione alle angosce di chi sta male».
La parola che sembra oggi avvolgere le nostre vite è “buio”. Come vivere in questa condizione?
«Se buio è l’impossibilità di vedere la luce non ci resta che resistere. Il buio non esaurisce il nostro pensiero e non ci impedisce di chiederci se siamo sul punto di spegnerci nella decadenza o sulla soglia di conoscere noi stessi».
C’è un libro che predilige?
«Ciascuno di noi dovrebbe avere un libro prediletto, un libro che non ci stanchiamo mai di rileggere, che ci aiuta nei momenti di fragilità e di tristezza, che adombra le nostre attese e le nostre speranze e che ad ogni lettura ci fa sentire qualcosa di nuovo, un libro che consiglieremmo ai nostri amici e amiche».
Il suo qual è?
«Le Confessioni di sant’Agostino. Il suo pensiero ci immerge nelle acque inquiete del mistero. Parlavamo del tempo; ecco una sua frase: “Ti confesso Signore d’ignorare tuttora cosa sia il tempo; d’altra parte, ti confesso, Signore, di sapere che pronuncio queste parole nel tempo; che da molto ormai sto parlando del tempo, e che proprio questo molto non lo è per altro che per la durata del tempo. Ma come faccio a saperlo, se ignoro cosa sia il tempo? O chissà, non so esprimere ciò che so? Ahimè ignoro persino cosa ignoro”. Mai parole furono così modeste e abbaglianti».