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 2020  aprile 11 Sabato calendario

Perché leggere John Steinbeck

Trovare un libro che sia anche una bussola è la maggior fortuna che possa capitare a un lettore. Una trama avvincente, certo. Una scrittura raffinata, indispensabile. Ma le grandi storie sono quelle che affrontano un dilemma morale e ti accompagnano a quella soglia lasciandoti lì per quando capiterà anche a te. La storia di tutte le storie è quella che ti consegna anche un biglietto a futura memoria: una pagina, un rigo appena, una parola. L’ho incontrata a sedici anni. Viaggiavo verso il liceo, come ogni mattina, su un autobus a due piani nel tempo in cui a Bologna gli studenti non pagavano il biglietto. Stavo sempre di sopra, piegando la testa, insieme con un’amica che ora in quel liceo insegna. Fu lei a dirmi: «Ti piace Steinbeck?». Citai Uomini e topi, Furore, Al dio sconosciuto. Scosse la testa: «Non hai letto niente. Te lo direbbe anche lui, se potesse. Tutto quel che ha scritto è stato per prepararsi a un solo romanzo, definitivo: La valle dell’Eden ».
Aveva ragione. Conteneva un segreto, un ingrediente per la vita futura, una torcia da estrarre e spolverare ogni volta che ce ne fosse stato bisogno per far luce nel buio. A sedici anni quella funzione non la possono svolgere i genitori o i professori: per principio non dai loro credito, o forse non fanno abbastanza per guadagnarselo. O semplicemente vuoi trovare da solo i tuoi maestri, le tue parole chiave. Ecco, quel libro conteneva la password per ogni tempo a venire, anche per questo, così assurdo e inaspettato, che ci ha colti impreparati. E allora vado alla libreria dove, pur non essendo un collezionista di alcunché, ho due copie di quel testo. Una è quella che lessi a sedici anni. L’altra una prima edizione in lingua originale vista nella vetrina di una libreria nella cittadina di McKinney in Texas una domenica mattina, che mi indusse a passare lì la notte per poterla acquistare l’indomani. Apro la prima copia a pagina 350 e ritrovo la bussola. Guardo l’ago e mi fornisce l’orientamento anche per questo esatto momento.
Ora, non sempre in un romanzo ( o in un film) il protagonista è il protagonista. Non credete al titolo o alla categoria dell’Oscar. Spesso è la spalla ( Yanez, il giovane Michael Corleone). A volte addirittura un personaggio giudicato minore, nascosto tra la folla dei co- qualcosa, che ha in tasca una pepita. Nell’Eden è Lee ( versione italiana: Li), il servitore orientale che è in realtà il dominus della casa, incrocio nato da una notte di passione tra Mary Poppins e Mister Wolf “risolvo problemi”. E quella notte anche i gufi sapevano qualcosa della vita.
Anche la sola visione del film con James Dean ( una sorta di riduzione cinematografica) rivela che Steinbeck si rifà alla Bibbia, in particolare alla Genesi e, ancor più nello specifico, al sedicesimo verso, nella versione pubblicata da re Giacomo in Inghilterra. Fino a pagina 350 il romanzo è stato un intreccio di desideri, sogni di grandezza, amori e depravazioni, tremendi inganni e colpe senza punizione o perdono. Come tutte le nostre esistenze ha proceduto a tentoni, nell’oscurità dei tentativi e nella velleità dei temporanei successi. Manca una luce. E lì, mentre tutti stanno bevendo la bevanda che sa di mele marce da lui preparata, Lee l’accende. Racconta di essere rimasto perplesso quando si è accorto che nel dialogo tra Geova e Caino una parola ebraica, timshel, è stata tradotta in due modi diversi. Il complemento oggetto è lo stesso: la signoria sul peccato. Ma una versione dice: tu abbi. L’altra: tu avrai. La prima ordina agli uomini un comportamento. La seconda fa loro una promessa. Nel primo caso l’umanità deve obbedire. Nel secondo semplicemente disporsi a ricevere. Lee rivela di essere partito per un luogo a nord dove quattro venerati saggi di oltre novant’anni di giorno fumano oppio e di notte studiano. Aveva proposto loro l’enigma e quelli si erano appassionati. Imparato, in due anni, l’ebraico meglio del rabbino che gliel’aveva insegnato si erano lanciati nell’interpretazione di quella parola. E avevano concluso che entrambe le traduzioni erano sbagliate. Timshel non significava né abbi, né avrai, ma tu puoi avere. Tu puoi avere la signoria sul peccato. Né dovere né predestinazione: scelta. «Potrebbe essere la parola più importante del mondo. Significa che la via è aperta», dice Lee. E ancora: «Questo sì che fa grande un uomo perché nella sua debolezza egli ha la grande scelta».
Il bene e il male come volontà e non come destino. Il carattere, la storia, come accidenti e non come strade obbligate. La libertà, la libertà di essere, di perdere, di trionfare, di sbagliare, di ricominciare. Una possibilità così umana e così divina. Aveva ragione Lee: è la parola più importante del mondo. L’hanno usata per canzoni, bar, tatuaggi. Una piccola cerchia di persone sparse nello spazio e nel tempo se la sussurra ogni volta che si trova davanti alla soglia del dilemma morale. Non c’è una soluzione prescritta. Non la troverai in alcun testo, neppur se considerato sacro, se è vero che il sacro testo ti ha detto proprio che non esiste, sta a te cercarla. Non andrà bene comunque tu agisca. Il bene sta da una sola parte. Ma il male consente ritorno. Sempre. Anche dal pozzo più nero, dall’uccisione di tuo fratello. L’ho portata con me per oltre quarant’anni. Tra gli uomini e le donne, nelle corsie di un ospedale, in tribunale, nel fiume di ogni storia, non c’è corrente: tu puoi, timshel.