Robinson, 11 aprile 2020
Perché leggere Truman Capote
L’arpa d’erba è un sogno fatto in Sicilia. Truman Capote, in precedenza, era stato «il più famoso romanziere non ancora pubblicato d’America». E dopo, per nove settimane consecutive, anche l’esordiente primo in classifica. Con Altre voci, altre stanze, prova d’autore immersa nei bayou del profondo Sud americano, si era meritato l’invenzione di un nuovo canone letterario, coniato apposta per lui: il barocco delle paludi. Quel libro autobiografico era stato perturbante fino all’horror, tanto da far dire al drammaturgo Tennessee Williams: «Truman è uno degli spettacoli più agghiaccianti del Ventesimo secolo». Bambini morsi da serpenti, bare intagliate a mano, rapporti erotici tra gemelli, vampiri spirituali, freaks: ora, per l’atteso secondo libro, ci si aspettava di tutto. E invece lui dagli Stati Uniti si trasferisce a Taormina, prende casa ai piedi dell’Etna, accanto a quella del collega Malcolm Lowry, e sotto il vulcano scrive un’elegia virgiliana.
The Grass Harp, appunto. E spiazza tutti. Pubblicato da Random House nel 1951, si rivelerà l’inaspettato ritratto in cera di un altro mondo possibile. Lecito dire, a proposito di un confronto tra letteratura e altre arti, che non sia stato scritto scalpellando la pietra o colorando una tela, ma piuttosto modellando materiale viscoso e malleabile, proprio come quello di una candela squagliata, ben più adatto alle metamorfosi e a certe oscure finalità, che non tendono affatto ad alludere alla realtà o a copiarla, ma piuttosto all’utopia di replicarla migliore.L’avventura dei protagonisti del libro, i componenti della famiglia Talbo, si svolge in un mondo – come il nostro di oggi – afflitto da un morbo saturnino (l’idropisia o ritenzione patologica di liquidi nel corpo). La zia del piccolo protagonista Collin, la zitella Dolly (una variante anziana di Alice nel paese delle meraviglie) conosce la cura, estratta da radici di piante del bosco. Le raccoglie e le lavora in un paiolo d’alchimista, come una strega, insieme al nipote e a Catherine Creek, creola e indiana, in contatto animistico con le forze naturali. Verena, arcigna sorella di Dolly, vorrebbe estorcerle la ricetta, ma non più per inviare il preparato gratuitamente agli ammalati, come ha sempre fatto l’altra, bensì per commerciarlo industrialmente. I tre, per difendersi dai nemici, si mettono in quarantena, scegliendo l’autoisolamento. Coadiuvati da un anziano giudice e da un cacciatore, si rifugiano in una antica casa costruita in un sicomoro dal doppio tronco, «spaziosa, robusta, un modello di casa aerea, simile a una zattera che galleggiasse su un mare di foglie». Ci saranno persecuzioni e una rivolta del paese, mentre i rifugiati sull’albero saranno «liberi di scoprire chi siamo in realtà» e di inventare una nuova tolleranza, quella che insegna che «non importa ciò che si dice: conta la fiducia con cui lo si dice, la simpatia con cui lo si accoglie».
«Stupendo, stupendo, stupendo» risponde con un telegramma Robert Linscott, editore di Random House, quando Capote invia dalla Sicilia i primi due capitoli. Ha iniziato a scrivere il primo giugno del ’50, nella casa di Fontana Vecchia, senza luce e acqua corrente, a precipizio sul mare, luogo che gli ispirerà il rifugio sull’albero del libro. «La casa sembrava una zattera» dirà. A Taormina gli avevano detto di stare attento ai lupi mannari. «Ma ci credete davvero?» aveva chiesto scettico. «Sicuro, prima qui ce n’erano molti, ora solo due o tre». Il 27 maggio del ’ 51 chiude il manoscritto, dopo avere assistito a un’eruzione dell’Etna. Stavolta dagli Stati Uniti gli rispondono che il finale non convince. «Stupendo finché non scendono dall’albero, ma poi...». Perché il “poi” è una conciliazione inevitabile con le forze della realtà, rappresentate da zia Verena. L’autore insiste per non modificare: «È molto più reale di qualsiasi cosa abbia mai scritto». Il libro esce il primo ottobre del ’ 51. Verrà applaudito, «qualche volta eccessivamente» dirà il biografo Gerald Clarke. Il segreto? La brevità, nessuna pagina superflua.
Eppure in questo libro c’è già tutto Capote. A sangue freddo, per esempio, il famoso libro del 1966 con il quale lo scrittore inventa il genere della non fiction, dedicato alla strage a Holcomb (Kansas) della famiglia Clutter da parte di due balordi. Qui Capote ha narrato il transito delle società occidentali dal gotico alla paranoia, che ha preso il posto dell’infranto sogno americano ( la famiglia, i consumi, il benessere economico) poiché alla porta di casa ti può sempre bussare un assassino. Gigliola Nocera ha scritto: «I Clutter sono i nipotini della sete di denaro di Verena Talbo, mentre gli assassini Dick e Perry sono i nipotini della tenera Dolly, degenerati in infinite sconfitte».
Non è l’unica somiglianza. L’arpa d’erba si apre come A sangue freddo chiuderà: sulla strada del cimitero, i venti che battono sulle foglie evocano un’arpa di voci. «Dolly disse: Senti? È l’arpa d’erba, che racconta qualche storia. Conosce la storia di tutta la gente della collina, di tutta la gente che è vissuta, e quando saremo morti racconterà anche la nostra».
Proprio per cercare storie, dopo l’esordio del ’ 48, Capote era stato tra i centomila americani partiti per il cosiddetto Gran Tour Europa. Anche questo un segnale di un mondo che transitava, come detto da Alberto Arbasino, dai «pezzi unici» al consumo di massa, dall’avventura al turismo. Capote si impegnerà tutta la vita a collezionare frequentazioni con gli ultimi pezzi umani unici, «mostri non rovinati», prima che scompaiano per sempre. Ma, intanto, vuole arrivare in Sicilia. Nell’Isola c’è André Gide, al suo ultimo anno di vita. Era lui, scoprirà Truman, il “lupo mannaro” di Taormina. Gli abitanti lo chiamano «la minaccia delle cinque», perché a quell’ora scende in spiaggia col cappotto sulle spalle, e sorseggiando acqua salata ammira i ragazzini. Gide aveva conosciuto bene Marcel Proust e Oscar Wilde. Era uno degli ultimi “mostri sacri” viventi. Lui e Truman passano il tempo a guardare il mare siciliano. Capote, di solito ciarliero e amante del gossip, sul francese scriverà pochissimo. Un giorno, come per incanto, il rumore delle onde gli sembrerà un’arpa di voci. Capisce che la materia da plasmare non sono Proust, Wilde, il jet set, i mostri, Gide. Attribuirà questa visione al personaggio letterario di zia Dolly, come fosse la cura contro il male.